Due menti che si incontrano, rispettive derive professionali che si ricongiungono in una medesima idee di suono e di geografia apolide. Da un lato il loro essere batteristi che significa anche un rapporto con il tempo così quotidiano da permettersi il lusso della violazione della regola, violazione che puntualmente ritrova conferme. E poi il nord, le sospensioni, voci corali, lontananze e industrie. Sergio Tentella e Davide Savarese sono i PITCH3S in questa nuova nascita insieme, con un disco di soli 5 brani davvero molto interessante dal titolo “Δόξα (Dòxa)” che in qualche modo invita al dualismo di vedute, di esistenza e non esistenza… la filosofia del tutto sposa la forma canzone e la sperimentazione.
Il divario tra suono acustico e quello digitale. Un disco che somiglia più ad un incontro, ad una mescolanza… ne esce una terza dimensione. Che ne pensate?
Sicuramente è una cosa che non ci siamo prefissati di fare, ma è descrittiva dell’ep in pieno, così come della musica odierna. Probabilmente è soprattutto la modalità di approccio allo strumento che oggi determina una lontananza tra suono acustico e digitale. Da batteristi ci viene da citare il lavoro di Deantoni Parks o di Jojo Mayer: approcciare lo strumento acustico in maniera “digitale” per così dire, aiuta già ad annullare questo divario alla fonte. E’ ciò che abbiamo cercato di fare su Dòxa.
Dopo numerosi ascolti firmati da Sergio Tentella, è inevitabile non risentire quel certo gusto come ad esempio quei disegni ritmici che aprono il disco e che ritroviamo qua e la per tutto l’ascolto. Un marchio di fabbrica vero e proprio se non erro… vero?
Se c’è riconoscibilità, c’è una voce con un proprio senso e questo ci fa molto piacere.
I suoni del nord, questo post rock che molto mi fa anche pensare molto (paradossalmente) ai ghiacci dei Placebo o alle aperture dei Radiohead. Da dove nasce invece questa direzione?
Hai citato sicuramente una grossa influenza, i Radiohead. Tutto ciò che è musica nordeuropea ci ha sempre affascinato non solo esteticamente; è un po’ aver ritrovato una parte importante di noi stessi in una cultura abbastanza lontana dalla nostra. È una codifica tramite la quale tradurre i nostri pensieri ci riesce in modo molto naturale. La spontaneità è la chiave per capire la direzione. Non è una nostra scelta bensì una conseguenza di ciò che siamo.
Bellissimo il video di “In my head”. Bellissimo questo dualismo che torna sempre. Come acustico e digitale. Quanto c’è di biografico dentro tutto il lavoro? E dalla forma canzone pop che spesso è parte integrante della vostra vita professionale, quanto avete preso?
Di biografico c’è parecchio, non solo nei video. Molti testi sono figli dell’esperienza diretta in fasi della nostra vita recente abbastanza complicate, imbrigliati in una forma che è sgorgata in maniera libera ed incondizionata. Di questa forma, c’è anche un po’ di forma canzone ovviamente.
Forse questo è l’unico tassello sul quale abbiamo praticato una scelta volontaria e consapevole:
quella di non voler scadere in un prestampato che condizionasse la scrittura.
Non volevamo dirci “ok allora facciamo ABABC e chiudiamo”, volevamo semplicemente rendere il più fluido possibile il passaggio tra le varie parti, e se ciò avesse richiesto l’uso di una struttura convenzionale a posteriori non ci saremmo opposti. L’importante era mantenere alto un certo grado di naturalità e di non forzare mai una struttura secondo un dato canone stilistico, “Gift” o “Agafia” sono due esempi calzanti.