– di Riccardo De Stefano –
Il percorso che ha portato la band bergamasca fino ai grandi palchi italiani – quest’anno quello del Primo Maggio – passa inevitabilmente dal loro ultimo album “Fuori dall’Hype”: i Pinguini Tattici Nucleari sono diventati da piccola band di culto della provincia a fenomeno nazionale capace di parlare al grande pubblico nostrano. Oggi suoneranno al Rock in Roma come headliner della serata e parliamo con Riccardo Zanotti, autore e cantante della band, di hype, paura, provincia e ironia.
Tornate a Roma dopo il Concertone del Primo Maggio e ci tornate per il Rock in Roma. Questi grandi traguardi in che punto della vostra carriera arrivano? Troppo presto? Troppo tardi?
Nel nord Italia siamo sempre andati bene. Forse nel resto d’Italia ci abbiamo messo un po’ più tempo, però, non direi mai che ci abbiamo messo troppo tempo. È una cosa che se deve succedere, succede. Sennò, amen. Roma e Napoli sono state una bella sorpresa, perché non ci aspettavamo di fare quel numero di paganti, in quelle determinate venue. Dall’anno scorso a quest’anno c’è stato un cambiamento. Siamo incredibilmente grati, non ce lo aspettavamo: siamo dei ragazzi che hanno iniziato a scuola, alla sala prove dell’oratorio. Trovarsi di fronte a questo risultato è bello.
Cosa cambia nel momento in cui si passa dall’oratorio ai grandi show? C’è un po’ di paura a riguardo?
Io prima di tutti i concerti ho un’ansia incredibile, nel senso che proprio mi viene da vomitare ancora oggi. Che sia il concerto con duecento-trecento persone, che sia con duemila-tremila persone, è identico, l’ansia è sempre tanta. Adesso si è aggiunta una seconda ansia, che secondo me è l’upgrade, cioè l’ansia della carriera. Quella più generale, che Kierkegaard chiamerebbe l’angoscia, penso. L’ansia la sentiamo ogni tanto, quando ci arrivano delle scadenze, però viviamo la nostra vita in modo normale. Ancora viviamo a Bergamo, andiamo a prendere il pane la mattina. Non ci pensiamo tanto, almeno per ora. Al momento ce la viviamo bene.
“Fuori dall’hype”, il nuovo album, è uscito ormai da un paio di mesi e, se non sbaglio, è il primo disco con una major. Questo passaggio da vera band indipendente a, di fatto, una band con una struttura mainstream, ha condizionato anche la vostra visione musicale? È cambiato qualcosa a riguardo?
Ti direi che ha influenzato, nel senso che abbiamo iniziato a lavorare con delle persone, con delle personalità, come si dice in gergo, che ci hanno aiutato molto. Noi siamo dei ragazzotti, che non hanno avuto tante esperienze prima di fare questa cosa con i Pinguini Tattici Nucleari. Veniamo da Bergamo, una città provinciale, una città che viene spesso schiacciata da Milano o da altre realtà. Abbiamo imparato nuovi modi di produrre, di suonare strumenti in studio per fare in modo di non sprecare il nostro tempo durante le sessions di registrazione. Tutte queste cose ci hanno permesso di fare un album migliore qualitativamente. Poi chiaramente può piacere e non piacere. A livello tecnico è stato eseguito in modo migliore rispetto agli altri album. Prima eravamo un po’ chiusi nella nostra bolla a Bergamo. Volevamo lavorare soltanto con persone molto fidate, che conoscevamo da anni. Questa volta ci siamo buttati con Sony, ma il risultato è migliorato. Quindi, ecco, forse la morale è che bisogna avere fiducia nel mondo, qualche volta.
Non a caso, forse, Fuori dall’Hype, un po’ sottolinea questo momento storico per voi. Anche nella canzone chiudi dicendo “sì, belli i primi, ma poi si è venduto”.
Quella è un’anticipazione, una gag, di quello che sapevo avrebbero detto poi le persone. In realtà, io mi ricordo ancora adesso, forse alle Invasioni Barbariche, di Rocco Tanica quando diceva che si è reso conto molto tardi nella vita che, anche con pochi accordi e magari poche parole ma buone, si può trasmettere tante volte molto più che con molti accordi e con tante parole. Quell’intervista fatta a lui, che è una delle persone che stimo di più al mondo, mi ha fatto pensare “cavolo, ma se provo a fare, per una volta, un album in cui cerco, invece di aggiungere, aggiungere ed aggiungere, di togliere qualche accordo e mettere le cose in modo giusto”. Less is more, no? L’album nasce da questa idea qua: cercare di fare un album un minimo nazionalpopolare, o almeno che ne abbia la pretesa, ma che cerchi di trasmettere qualcosa, qualche contenuto, magari anche diverso dall’amore e basta. Qualcosa di un po’ più trasversale. Chiaramente, non so se ci sono riuscito, ma quello non lo sapremo mai.
Quello che c’è in questo disco è un po’ la perdita di quell’aspetto un po’ più gag che c’era in Gioventù Brucata. Forse è finita quella fase più “cabarettistica”?
Non so se sia finita. Potrebbe ricominciare senza alcun problema. L’unica cosa è che per quest’album qui non la sentivo tanto mia. Mi sembrava che la gag, l’ironia del momento, fosse un po’ troppo specifica e non universale. Volevo che quest’album fosse un pochettino più universale e cercasse di parlare a tutti. Penso che un po’ sia andata bene, perché il pubblico è triplicato, in pratica, sia per i live, per lo streaming, che per le visualizzazioni.
Non lo so, però, se è finita, perché comunque l’ironia c’è sempre, non c’è quell’aspetto cabarettistico, quello di sicuro, che c’era in Gioventù. Non è detto che non ritorni, perché alla fine tutto può tornare.
Certo, questo è verissimo. Tra l’altro, voi siete fra quei gruppi che hanno fatto il loro marchio distintivo quel confine fra serio e faceto, nelle canzoni, ma anche nel vostro modo di porvi, nelle foto, nella comunicazione in senso lato. Avete un po’ paura che i due piani si sovrappongano troppo?
Secondo me, paradossalmente serve forse all’inizio della carriera. Guarda ad esempio il nostro nome, che non ho scelto io, per dirti, e che non avrei mai scelto. All’inizio pensi sia simpatico, ti colpisce, ma poi sul lungo periodo, diventa più difficile. Tanta gente ha già sentito il tuo nome, sa più o meno che canzoni fai. Ha visto, in Gioventù Brucata, che facevamo del rock un po’ cabarettistico in alcuni pezzi, e allora non ha tanta voglia di tornare a rivederti o riscoprirti. Proprio per questo, bisogna cercare di non essere troppo autoreferenziali. Cercare di usare l’ironia in una maniera diversa. Se ci pensi, pure Calcutta è ironico tante volte. Bisogna utilizzarla con molta cautela. Ci siamo scottati un po’ in certi casi. È servito questo album per aprirci davvero al grande pubblico. Anche se nell’ultimo abbiamo due canzoni, che sono Irene e Tetris, che ci hanno dato una grande spinta nella carriera. Il vero risultato di pubblico l’abbiamo visto con quest’ultimo, che non è più così cabarettistico, come dicevi tu prima.
In un certo senso, quella dell’ironia è anche un’arma per vincere la provincia?
Cazzo, bella! Ti dico, sì, forse l’ironia del saper guardare se stessi da fuori. Lo stereotipo dell’autore bergamasco, quello che non è sensibile, come fa a scrivere di sentimenti… Tutte le province hanno problemi di questo tipo, perché giustamente sono viste come sfigate. Mi viene in mente Max Pezzali, che lo dice sempre, che la provincia è sfiga. Una città con centosei farmacie e due discoteche. Forse, l’ironia ti aiuta tanto nel percorso. Ti aiuta anche, secondo me, l’orgoglio. Capire che ti può dare qualcosa in più la provincia. Noi, infatti, siamo rimasti qui volontariamente. Saremmo potuti andare a vivere a Milano, ma ci piace tanto la vita che facciamo qua. Hai il fascino per le cose piccole, dalla nuova pensilina dell’autobus, al nuovo ristorantino che apre (ce ne sono due, adesso diventano tre). È molto figo e ti aiuta tanto in una carriera artistica in generale e non solo musicale.
L’altro aspetto interessante del disco è quello che circonda il termine “hype”. Un termine diventato anche troppo abusato. Cosa significa essere “Fuori dall’Hype”?
Nel nostro caso, uno dei significati è proprio geografico. “Fuori dall’Hype” ha significato per noi, negli anni, vivere a Bergamo. Sembra una cazzata, ma ci sono tanti problemi che derivano da questo. Se la radio ti dice: “hey, domani ce la fai a venire qua e suonare un set per noi?”. Magari anche una radio fighissima, come Radio1, Radio2. Non puoi farlo, perché è a Roma. Se ti dicono: “hey, guarda, mi servirebbe per questo pomeriggio questa cosa”. Se tu devi muoverti geograficamente è un problema. In più, sai, la sera si creano tante alchimie, di contatti diversi tra loro, in queste città e magari nei localini, come erano Le Mura al tempo. Adesso magari il Pierrot e via dicendo. Qua non si creano, perché non abbiamo neanche locali di aggregazione a Bergamo, non ce sono troppi, ce ne sono molto pochi.
Il primo motivo, quindi, è più pratico. “Fuori dall’Hype”, però, significa anche, in qualche modo, pensare ad una carriera che non sia costellata di hype. L’hype è un mostro gigantesco che ti guarda un giorno e poi il seguente ti butta via. Ti usa soltanto. Adesso non voglio fare il vecchio che inveisce contro i talent, anzi. Non è proprio il mio ruolo e non inveisco contro un cazzo. Capita che tante volte gli artisti siano sotto i riflettori, nell’occhio del ciclone, per un giorno, mesi o anche soltanto un anno, anche artisti enormi. Poi nessuno li caga più, perché l’hype si è mosso verso qualche altro artista. Ecco, l’idea nostra è di costruire tutto molto piano e lentamente, senza avere questo riflettore dell’hype, che è molto effimero.
Quindi, diciamo, combattere la musica con la data di scadenza. Come pensi di affrontare il palco del Rock in Roma? Con che spirito affronterete un palco così grande? Hai paura a riguardo?
La paura è tanta. Roma è una città strana, lo sai meglio di me. Non è facile per chi viene da fuori. In così poco tempo, siamo riusciti a fare questa strada, ad arrivare ad uno dei palchi più importanti in Italia. Mi intimorisce in qualche modo. All’Atlantico l’ultima volta abbiamo visto che la gente l’ha presa bene. Di conseguenza, abbiamo detto “proviamoci”. È un po’ una scommessa. Vogliamo puntare tanto su questa città, per quanto riguarda il futuro. Si sa, è una città importantissima, la culla di quello che sta accadendo in Italia nella musica indipendente e volevamo spaccare in qualche modo. La paura, però, c’è eccome.