– di Martina Rossato –
A quanti è capitato di andare in fissa con la fantascienza? Una tappa quasi obbligata, direi.
Immaginate che, anni dopo aver letto intere bibliografie fantascientifiche, tra Asimov e Dick, uno dei gruppi che più stimate pubblichi un album dal titolo “Ho sognato pecore elettriche – I dreamed of electric sheep”. Immaginate poi di poter assistere alla conferenza stampa di presentazione del disco, di poterlo ascoltare in anteprima e di trovarvi davanti due dei suoi membri storici in una cornice a dir poco particolare.
È quello che mi è successo martedì 19 ottobre, a Milano, quando ho avuto la possibilità e l’onore di partecipare alla conferenza stampa di presentazione del nuovo album della PFM (in uscita domani, 22 ottobre), band che seguo ormai da anni, alla presenza di Franz Di Cioccio e Patrick Djivas, due degli attuali membri della Premiata Forneria Marconi. Il luogo scelto per l’evento è il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo Da Vinci, che si è dimostrato il posto perfetto per presentare il disco di due “maniaci della fantascienza”, come si sono definiti Franz e Patrick.
Prima dell’inizio della conferenza, i presenti hanno potuto ascoltare la versione italiana del disco, l’album è infatti doppio e le venti tracce da cui è composto sono dieci in italiano e dieci in inglese. Su queste ultime, Franz e Patrick hanno tenuto a specificare che la versione inglese del disco non è una traduzione di quella in italiano, ma ne è un’interpretazione nata dalla penna americana di Marva Marrow, scrittrice che già in passato ha collaborato con la PFM. Alla realizzazione dell’album hanno partecipato anche Ian Anderson con il suo flauto e Steve Hackett accompagnato dalla sua leggendaria chitarra.
A proposito di queste importanti collaborazioni, Franz e Patrick hanno raccontato di aver conosciuto Ian a Roma e di essersi subito trovati molto bene. Ne parlano come si parla di un amico particolare, per il quale si prova grande affetto e rispetto. La collaborazione con Steve Hackett nasce invece da un incontro in casa discografica, la tedesca Inside Out Music. Si sono definiti “musicisti affini”, un po’ come le “anime affini” di cui parlano in “Kindred Souls”.
“Ho sognato pecore elettriche” è un concept album, una storia che si fa musicale, in cui ognuno dei brani racconta qualcosa. Ci sono poi gli strumentali, che nascono come jam sessions, a dimostrazione del fatto che il gruppo ha voglia di suonare, di inventare e di non replicare ciò che è già stato fatto. Tutto sommato la PFM suona dal 1970, ha alle spalle 17 dischi in studio, 14 dischi live e 18 raccolte: “non si possono suonare le stesse cose da cinquant’anni”. È così che i musicisti hanno deciso di aprire l’album con lo strumentale “Worlds Beyond”, che dedicano a se stessi e alla propria voglia di fare musica, una delle costanti che non li ha mai abbandonati, nonostante la costante ricerca di innovazione. Per Franz e Patrick è infatti fondamentale essere aperti a qualsiasi cosa e quando viene chiesto loro che cosa significhi fare prog nel 2021 rispondono che è “la libertà nella musica”; definiscono prog solo i primi due album della PFM, mentre gli altri sono semplicemente “album di musica”. Per loro, il primo e forse unico requisito della musica è quello dell’armonia: la musica deve mettere insieme note che stiano bene insieme, per il resto, massima libertà.
Questo modo di approcciarsi alla musica è da sempre distintivo per la band, come distintivo è il loro carattere di internazionalità, dimostrato anche dal loro ultimo tour, che ha riscontrato grandissimo successo. Parlando di tour, non poteva mancare anche solo un accenno alla situazione attuale. Il gruppo si dice contento del fatto che nessuno ha chiesto indietro i biglietti acquistati prima dello scoppio della pandemia per il tour in programma, perché vuol dire che la voglia di ascoltare musica non è passata. Inoltre, si è parlato dell’importanza del fare concerti con la giusta capienza, senza la quale la musica dal vivo non può andare avanti.
Una delle prime domande rivolte a Franz e Patrick riguardava significato del titolo che hanno voluto dare all’album. Si tratta di un chiarissimo rimando al libro “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” di Philip K. Dick, e vuole essere un memento della triste presa di consapevolezza che “stiamo perdendo il potere del sogno, dell’immaginazione”. Dal libro di Dick sono tratti i film di “Blade Runner” ed è da questi che sono rimasti affascinati. L’idea nasce da una scena in cui viene chiesto ad un androide a mo’ di test per capire se sia umano, di parlare di sua madre. Questa semplice domanda apre la possibilità di approfondire moltissime riflessioni su cosa voglia dire “essere umani” e sulla “grande corsa, il ritmo frenetico” cui siamo obbligati a sottostare. Philip Dick parla di androidi, ma oggi “gli androidi in carne ed ossa sono attorno a noi” ci tengono a ricordare.
Per questo diventa necessario un album che ci porti altrove, che ci permetta di ampliare i nostri orizzonti e che ci faccia mettere in discussione quanto c’è di reale o meno attorno a noi. Come recita un verso all’interno del disco, “siamo soli ma umani siamo noi”. Questo album, con la sua voglia di essere unico e indipendente da qualsiasi influenza musicale altra, ci fa esplorare i lati più profondi del nostro “essere umani”.
Un’ultima riflessione è stata fatta sulla copertina dell’album e sulle scelte del regista. In copertina infatti troviamo una faccia che in realtà ne contiene due: la PFM ha un’anima sola, pur essendo al suo interno composita e ospitando identità diverse. È così oggi, come era così nel 1970.