– di Giuseppe Zibella –
Quello dei Panta è un esordio solo discografico. Il quartetto capitolino infatti conta e vanta, alle spalle del loro Incubisogni, la bellezza di duecento concerti e collaborazioni tra le più disparate, che vanno da Carlo Verdone a Giorgio Canali, fino ad arrivare addirittura a David Lynch. Il regista di Twin Peaks e Mulholland Drive volle, nel 2017, che la band romana presenziasse a Lucca, in occasione della “David Lynch Foundation”, per mostrare cosa significasse creatività giovanile. Da lì in avanti ancora sodalizi, date e palchi importanti, incrociando direttamente o indirettamente anche mostri sacri come gli U2.
Arriva l’anno 2019 e il primo long playing vede finalmente la luce: Incubisogni esce lo scorso 19 aprile e mette d’accordo un po’ tutti già dagli albori. Ciò che colpisce all’istante, quasi folgora, è che i Panta sembrano conoscere il trucco per tradurre l’indie rock anglo americano ed italianizzarlo, senza lasciare scorie e incompiutezze. Traduzione che non si limita soltanto agli arrangiamenti lo-fi che si contaminano di new wave, ma tocca anche le parole, così che ogni verso ha la musicalità giusta per incastrarsi in maniera disinvolta con gli arpeggi e con le melodie dei brani.
Così è Abbastanza Indie, in apertura, ricorda i primi Arctic Monkeys, nel basso rovente e nelle chitarre che suonano a intermittenza prima di esplodere nel ritornello e poi scivolare in un assolo solido. Con l’avanzare della riproduzione e il susseguirsi delle tracce, dieci in tutto, la formula vincente sta nella supremazia degli strumenti a corda e nell’alternanza di ritmiche instancabili ad altre distese. In una passeggiata in dormiveglia nelle strade della Capitale, tra vicoli illuminati e viuzze tenebrose, i Panta indagano nei sogni e negli incubi in cerca di una risposta ai propri bisogni.
Roma Dolce Tenebra è forse il culmine del momento onirico, l’attimo prima del risveglio di un ensemble che lascia spazio perfino ad un violino elettrico che sferza il suo lamento.
Incubisogni è una continua esplorazione di suoni – c’è Steve Lyon in cabina di produzione – e di parole, una miscelazione equilibrata di generi che non bada a spese. Un disco in cui le chitarre suonano davvero.