– di Manuela Poidomani –
L’ultimo decreto legge approvato prevedeva la riapertura delle discoteche in tutta Italia e la data ufficiale corrispondeva all’11 ottobre 2021. Esattamente undici giorni dopo questo avvenimento, P L Z pubblicava “MEGA”, il primo disco ufficiale del progetto, capace di incastrarsi e mimetizzarsi perfettamente in questa nuova ripresa, con una techno pop disordinata, cantata e suonata, che ascoltandola fa immaginare di stare al centro di un palco, dove luci al led perforano il corpo, e con gli occhi chiusi si fanno muovere i propri arti, senza pensarci troppo, come un burattino che viene destreggiato dal proprio creatore, senza volontà di scelta.
Non male, se è questo l’effetto dopo il primo ascolto, per il duo dal volto coperto e spettrale, come loro stessi amano autoproclamarsi, che si muove in silenzio nella nuova scena musicale italiana. Senza gridare la propria presenza alla discografia nazionale, P L Z sceglie la via del non riconoscimento visivo, con maschere di lattice che copre ogni connotato, di contro a un incisivo carattere sonoro apocalittico e perforante, che invita a diventare un tutt’uno con quel ritmo che forse richiama la volontà di far rivivere di nuovo quell’“Epilogue” dei Daft Punk, tanto amato e ancora e per sempre ricordato.
“M E G A”, scritto con questa spaziatura, peraltro è anche il titolo della traccia arricchita dalla presenza di Whitemary, producer e songwriter tra le più in vista della nuova scena italiana, è «un romanzo sentimentale, di formazione e disfacimento ciclico, senza direzione ma nel nome dell’amore. Le canzoni sono come scene sconnesse dello stesso film… È un rollercoaster di voci e beat saturati dall’usura, fra slanci edonistici autoindotti, discese paranoidi e pochi momenti di stasi rivelatoria.»
Un album in cui pulsa aria di ribellione, di distacco a chi per troppo tempo ci ha tenuti bloccati tra le mura di restrizioni, dove anche un bacio diventa atto di rivoluzione.
“Milano d’agosto” è ad esempio la speranza di un qualcuno che ci porti via, dall’asfissia della solitudine e dalle proprie paranoie.
“Secoli” è una speranza tagliata dal riconoscere che il cambiamento non può essere interiore: «Ci si accorge che a muoversi e cambiare è tutto intorno, mentre noi siamo fermi, in un’eterna stagnazione esistenziale».
Undici tracce che trovano un perfetto binomio tra anima cantautorale e suono elettronico, che possono finalmente far rivivere quella sensazione di libertà nel ballare ovunque sei e come vuoi, e fortunatamente, e con un po’ di speranza, non più solo all’interno di una piccola stanza.