– di Ilaria Pantusa –
In Giovanni Lindo Ferretti la coerenza è talmente coerente da incontrare il paradosso, eppure non stupisce. Nel 1984 Pier Vittorio Tondelli citava le parole dei CCCP, nati due anni prima a Berlino dall’incontro tra Ferretti e Zamboni, che scrivevano: “Ai tanti che hanno scoperto l’America con cinquecento anni di ritardo, le nostre felicitazioni. Ognuno ha l’immaginario che si merita. […] Non ne possiamo più del jazz, del reggae, del blues, perché non abbiamo nessuna negritudine da rivalutare: siamo bianchi europei colti”, mentre ad una domanda dello stesso Tondelli sul fenomeno del filosovietismo in Italia, rispondevano caustici: “Noi abbiamo fatto solo l’inizio. Il resto l’ha fatto l’URSS”.
Poche settimane fa, in un’intervista concessa a Rolling Stone, colui che era stato la voce di CCCP, C.S.I. e PGR parlava ancora di Europa, della sua fine, seppur rappresentata da una figura diametralmente opposta a quella dell’URSS, ossia Ratzinger e la sua rinuncia al papato, “percepita come un segnale orribile dei tempi. Che, per semplificare, ha significato la fine dell’Europa”.
La fine di qualcosa c’è sempre stata nella poetica di Giovanni Lindo Ferretti, basti pensare al titolo del primo disco coi C.S.I., Ko de mondo, “fine della terra”, perché “lo scenario era cambiato: non più l’Impero Sovietico ma l’Europa e tutti i luoghi in cui finisce l’idea d’Europa”.
È proprio da Ko de mondo del 1994 che Ferretti pesca l’accompagnamento musicale (il pezzo strumentale La lune du Prajou) per il suo istantaneo ritorno, non programmato, non annunciato, non celebrato nei modi in cui siamo abituati. Semplicemente appare, dà voce alle proprie riflessioni e se ne sta lì, nel suo paese dell’Appennino reggiano, Cerreto Alpi, ad osservare la realtà scorrere. Il tutto attraverso il canale Youtube di No Music.
Ora è un “brano” che si può leggere in più modi, a partire dal titolo:
La descrizione di questo tempo presente, “il tempo ritrovato, un tempo sconosciuto, stagnante nel regno dell’accelerazione” che “irrompe in streaming senza consolazione”.
È al tempo stesso parte della locuzione latina “ora et labora”, quindi un riferimento alla preghiera, che infatti c’è sia nell’interpretazione liturgica che nella coda finale del pezzo (“Avere timore, quaresima di parole, ritorno al reale, ora et labora Anno Domini MMXX, senza lavoro e senza liturgia, la stagione picchia duro”).
E c’è ancora un riferimento alla fine: “ora” in latino significa anche “estremità, margine, orlo, fine”, quella da cui Ferretti osserva, riflette, scrive, canta, prega, lavora. L’estremità di un mondo, quello dei suoi monti, ma anche l’estremità di un mondo intesa sia nel senso dei limiti che oltrepassa, sia nel senso del suo giungere ad un punto percepito come di non ritorno.
Se Giovanni Lindo Ferretti è riemerso dal silenzio (anche se in silenzio non c’è mai stato, dato che a breve pubblicherà un libro per Mondadori contenente i suoi scritti di questi anni rivisti e “depurati” dal contingente “salvando i pensieri che andavano al di là”), se appunto Ferretti è tornato a regalarci musica, pensiero e preghiera insieme è perché quello che sta accadendo a causa di questa pandemia è qualcosa di importante, qualcosa che non abbiamo potuto ignorare, un evento di fronte al quale la gran parte del nostro solito mondo frenetico si è dovuta fermare, un evento di quelli che segnano spartiacque nella storia, un po’ come la caduta del muro di Berlino, che nella vicenda umana ed artistica di GLF ha significato la fine di una storia, quella dei CCCP e l’inizio di un’altra, quella dei C.S.I., quando era il tempo di cantare “non fare di me un idolo mi brucerò/ se divento un megafono m’incepperò/ cosa fare non fare non lo so/ quando dove perché riguarda solo me…”.