Voglio trovare un senso a questo disco anche se questo disco…un senso non ce l’ha.
Si parla di You Don’t Exist, ultimo lavoro dei One Dimensional Man, trio formato da Pierpaolo Capovilla, Franz Valente e Carlo Veneziano, uscito per La Tempesta Dischi.
Dato che loro non sono tipi da giri di parole cercheremo di essere chiari il più possibile: è un disco vecchio, borioso e privo di ispirazione.
I tre ripartono dalle sonorità che avevano portato il gruppo all’attenzione della critica nel lontano 1997 e sembrano non volersi allontanare più di troppo da quel genere un po’ noise, un po’ hardcore, un po’ post-rock. Genere che poteva già essere bollato come “datato” agli sgoccioli degli anni ’90, ma chissenefrega a farlo era un gruppo italiano quindi headbanging e pollice in su. Nulla da ridire.
Ma di quella rabbia, di quella furia, di quel pizzico di follia che caratterizzava il primo omonimo album e, in una misura diversa anche quelli che l’hanno seguito, non è rimasto praticamente nulla. La tecnica, quella si, intatta e forse migliorata, i tempi dispari, le intricate linee di basso, le distorsioni. Ma nulla di più.
Il vero nodo problematico di You Don’t Exist è nella sua totale assenza di intenzione e spontaneità; c’è solo l’emulazione di una rabbia ormai antica che si è cercato in tutti i modi di ravvivare. Ma si sa che se un sorriso è facile da inscenare, a digrignare i denti senza crederci veramente si rischia di causare l’effetto opposto a quello desiderato.
Va detto anche che questa è una musica che si può suonare anche senza essere dei bravi musicisti, basta essere onestamente incazzati.
Se poi si è pure bravi tanto meglio.
Ma se si è solo bravi, allora non c’è partitura che regga a salvarci dall’impressione di assistere ad un attore che cerca di fare il cattivo da un miglio di distanza dietro un solidissimo vetro antiproiettile.
Non destabilizza, non mette a disagio, non turba. È, in poche parole, un album innocuo.
Più o meno lo stesso meccanismo che ha colto in fallo Il Teatro degli Orrori nel loro ultimo disco, solo che qui Capovilla canta in inglese e, paradossalmente, è ancora peggio.
Ma allora qual è il senso di ascoltare un nuovo disco dei One Dimensional Man oggi, nel 2018.
Ahimè…nessuno.
Forse un po’ di nostalgia, annichilita, comunque, dal senso di occasione mancata. Perché, tanto per continuare sulla scia di citazioni dalla musica colta, “ad ogni speranza corrisponde stessa quantità di delusione” e noi, io il sottoscritto, chi scrive, ne aveva riposte parecchie su questo ritorno.
Però noi non dimentichiamo e di certo non smetteremo di seguire questa band, specialmente live, fottendocene di quanto appena scritto e godendoci lo show dei One Dimensional Man che negli scontri faccia a faccia non ha mai perso la foga del ’97.
E allora, forse, sarà il momento di pentirsi di questa recensione.
Gianluca Grasselli