– di Martina Antinoro –
Praino, cantautore di origini calabresi, ormai bolognese di adozione, è uscito il 3 dicembre con il suo nuovo EP “Mostri, civette”. Le quattro tracce trasportano l’ascoltatore in un mondo interiore ed oscuro, riuscendo a toccare i tasti più intimi e nascosti di ogni essere umano.
Per comprendere meglio l’universo Praino, abbiamo posto al cantautore qualche domanda.
“Mostri, civette”, il tuo EP d’esordio, è uscito il 3 dicembre. Come ti senti e com’è nato questo progetto?
Mi sento bene, sono contento che sia finalmente uscito dalla mia testa. È un progetto nato dall’esigenza di scavare anche emotivamente dentro di me e cercare di frugare alcuni dubbi che ho sempre avuto. Curare questo progetto è stato un all in anche verso me stesso perché mi ha permesso di indagare a fondo determinate cose, determinate domande ed avere delle risposte. Nel mio piccolo sono felice perché credo di esserci riuscito.
“Mostri, civette” è il brano che dà il titolo al tuo EP, qual è il messaggio che vuoi far arrivare al tuo pubblico?
Tra le mie intenzioni non c’era quella di lanciare un messaggio, bensì quella di dire e di dimostrare quello che avevo passato o comunque che ho passato in questo periodo di stesura del progetto. “Mostri, civette” si intuisce già dal titolo: sembra qualcosa un po’ creepy, che comunque rimanda ad un immaginario collettivo di paure e di ansie. Per quanto mi riguarda l’unica intenzione era quella di parlare di un periodo nel quale ho vissuto diciamo la depressione, l’ho assaporata, l’ho assaggiata. Era giusto per me cercare di essere vero fino alla fine, raccontando quello che ho vissuto e quello che vivo in generale nella mia vita, provando a farlo sentire anche agli altri.
Qual è il brano a cui sei più legato e quando lo hai scritto?
Tutti i brani dell’EP sono sicuramente in egual modo legati a me a doppio filo. Forse quello a cui sono più legato è “Mostri, civette” perché, più che un brano, è un qualcosa che racconta quello che ho dentro, che vivo ogni giorno.
Il 26 novembre hai iniziato il tuo tour: quali sensazioni hai provato ad esibirti davanti ad un pubblico?
È stato bellissimo, abbiamo iniziato da Pisa ed è stato veramente bello. Io non suonavo da oltre due anni e cominciare qualcosa con la band, con tutti i ragazzi che hanno lavorato al progetto, è stato incredibile. È stato incredibile anche tornare a vedere il pubblico in piedi, cercare di empatizzare con loro. Ci saranno altre date: non vedo l’ora di tornare a suonare perché la musica naturale è quella del palco.
Hai dichiarato che questo EP nasce dall’unione delle tue esperienze passate e dalle tue influenze musicali, ma soprattutto c’è, per citarti, “la voglia di suonare come le prime volte da ragazzo”. Quanto c’è in questo EP di quel ragazzo?
C’è tanto, forse troppo. I ragazzi con cui suono a volte mi dicono “Si può fare questa cosa che vuoi fare, si può suonare, ma si può suonare meglio”: cioè io molte volte ho sacrificato, dal punto di vista tecnico, l’esecuzione, per avere quel feeling che avevo quando avevo quattrodici anni. C’è molto di quel ragazzo lì e in questi anni di lavoro, anche quando il mondo fuori non era ancora cambiato, ma dentro di me lo era, quando avrei voluto accantonare tutto, mollare tutto, era quel ragazzo lì che mi diceva che avrei potuto trovarci del bello.
In tutte le cinque tracce si può avvertire quel senso di rabbia e confusione che caratterizza questo periodo, ma sicuramente “Crisi” è il brano che sintetizza al meglio tutto questo.
“Crisi” è come se fosse uno sguardo esterno, non coinvolto. Per un attimo all’interno dell’EP c’è questa ventata di consapevolezza, quasi come se per un attimo avessi la consapevolezza piena di quello che vuol dire avere una crisi: quando l’ho scritta la sensazione è stata proprio quella. L’intenzione di crisi è stata quella di raccontare e di mostrare a tutti, quanto una crisi possa essere naturale, possa essere qualcosa da cui trarre forza, qualcosa che ci cambia e ci fa male, ma anche qualcosa di necessario per un cambiamento e per una presa di consapevolezza. Crisi per me è esattamente quello: una presa di coscienza, un qualcosa che va a chiarificare il tutto dopo una nottata buia.
Mentre invece “Morderti” è il brano più romantico.
“Morderti” è forse il brano più maleducato, romantico se lo vogliamo far rientrare nell’immaginario collettivo. È un brano che comunque va contro la musica attuale: non ha un ritornello, è pervaso da suoni di chitarre e mi ricorda quando suonavo da giovane la batteria dovunque e con chiunque.
“Vorrei essere una foresta” è il brano che apre l’EP ed anche quello per cui avete girato un videoclip, diretto da Marta Pianta. Cosa vuoi raccontare attraverso questo brano?
Ricollegandoci alla domanda di prima su quale sia il brano a cui sono più legato, “Vorrei essere una foresta” è la canzone che mi ha fatto rinascere, è stato un confessarmi a cuore aperto. Poi Marta è stata bravissima e la ringrazio tanto. “Vorrei essere una foresta” è qualcosa che trascende da tutto quello che gira, è un urlo, un break, uno sfogo: per me è stato un brano liberatorio. Tra l’altro è anche il primo di questo progetto che ho scritto e mi ha fatto capire che questo era il momento di giocarmi tutto nei miei confronti, di essere sincero con me stesso fino in fondo.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Ci sono un po’ di cose in cantiere, tra cui la seconda parte dell’EP alla quale stiamo già lavorando. Sono carico e spero che arrivi il prima possibile perché dovrò lavorare con persone che ne sanno più di me, perché ci saranno concerti e soprattutto condividerò tutto con la mia squadra.