Il 9 giugno è uscito il disco di Nyco Ferrari, “Sono fatto così”, un disco multiforme e mutaforma.
– di Roberto Callipari –
È difficile spiegare, dal mio punto di vista, cosa “mi prende” di un album quando lo ascolto. Anche perché tutti partiamo con un’idea di bello, cercando di costruire il nostro gusto in una maniera che sia anche socialmente valida, che sia anche spendibile nella cerchia di quelle persone con cui passiamo il nostro tempo.
Io, di questo disco, non saprei dire cosa mi ha preso. È un disco che mi ha trovato e mi ha portato in sé: forse perché ha delle storie da raccontare, forse perché suona bene, forse perché la voce di Nyco è bella, pulita, perfetta, controllata sempre nel modo giusto. È come avere davanti un film di un regista che conosci poco e male – e magari hai anche un brutto pregiudizio su di lui, ma poi quella storia ti entra dentro e non riesci ad alzarti, a lasciare la poltrona (disclaimer: non puoi usare questa scusa per motivare il fatto che ti piace “Temptation island”). Quindi ormai ci sei, ce l’hai in cuffia e la produzione è buona, figlia di quella piccola rivoluzione operata da “OBE” di Mace, ma probabilmente anche di tutta una wave più conscious in cui è entrato l’hiphop italiano (in senso molto ampio) da qualche anno a questa parte – diciamo quello da “Persona” in poi, soprattutto quando il focus viene spostato sulle liriche, che sono quasi una dimostrazione di cosa si può fare quando racconto e tecnica vanno nella stessa direzione.
Per parlare di un album come “Sono fatto così” bisogna andare più nello specifico, cercando di capire che non è “il solito prodotto pop” (che poi che significa?). Un lavoro composto di una tale quantità di strati – non oso immaginare i layers su Ableton – va letto tentando di seguire le due possibili chiavi di lettura, cercando di esaminare da una parte la musica e dall’altra la voce (e i testi).
C’è un lavoro sulla produzione che è veramente ben fatto. Importante, impegnativo, ricercato, nella dimensione in cui è in grado di descrivere mondi ed atmosfere, a volte più colorate (penso a “Vaffan”), a volte più cupe e intime (vedi “Lecca lecca”), senza andare per forza nella dimensione accomodante per il mercato. O meglio: lo è, è decisamente accomodante, difficilmente “cattivo” o “sconvolgente” per un ascoltatore da alta rotazione, ma ad ogni modo si ritaglia uno spazio in un panorama saturo, tenta di creare un luogo personale, e a tratti ci riesce pure, con inserti più dance/ritmati – o comunque li si voglia chiamare – uniti a suoni decisamente musicali in senso classico o canonico, che dir si voglia.
Il discorso voce e testi è più complesso, perché vi si intrecciano storie e tecnica, in dei modi che è difficile anche scindere, in certi momenti. Qua si corre, nelle liriche e nella tecnica: si viaggia fra testi e sonorità urban (con cantato ovviamente regolato ad hoc per la veste proposta) fino a un rap quasi asfissiante (come è quello di “Bembada”), per poi volare via dall’Italia, in suono e parola, approdando nella francese “Tapim Tapum”, tra virtuosismo e sentimento.
E se tutto questo viaggio certo non stanca a tratti distrae, ogni tanto si perde in tutti i giri che fa, riapprodando su piccoli cliché sparsi qua e là che, alle volte, sono quasi troppo, sono quasi di troppo, ricordandoci quanto l’Italia, comunque, è difficile levarsela di dosso, con tutti suoi pregi e con tutti i suoi difetti (come quel vago senso di distacco dalla realtà che, ogni tanto, qua e là, si percepisce). Resta comunque un disco che, dal punto di vista contenutistico, è una complicatissima scatola cinese di scatole cinesi che non basta ascoltare una volta per cogliere la quantità di informazioni che ci vengono sparate addosso, e questo non è per forza un male.
Detto ciò, credo che ci troviamo fra le mani un album sul quale non possiamo dare un giudizio del tipo “promosso o bocciato”, quanto un lavoro che ci pone in uno stato di attesa: attesa del live, attesa del prossimo lavoro, attesa di capire come crescerà (se crescerà) un artista che ha poggiato una prima pietra.