I GBRESCI sono un duo romano che ha rilasciato il 16 giugno il suo nuovo album, “Giochi Stupidi”, nel quale si mettono a nudo fra amicizia, voglia di scappare e tanto altro ancora.
– di Roberto Callipari –
“Giochi Stupidi” un lavoro complesso, vario, che scorre fra cloud rap e “non”trap, fra rock ed elettronica, e trova il suo meglio in quanto racconto di quanto sono e fanno Niccolò ed Edoardo. Per capire meglio il disco e le sue intenzioni abbiamo parlato con Niccolò, una metà del progetto, col quale abbiamo parlato della sua versione e visione di ciò che sono i Gbresci e “Giochi stupidi”.
Da dove arriva il titolo dell’album?
L’origine del nome è frutto di un’esperienza curiosa. Stavamo nel deserto in Marocco e io stavo arrampicandomi su una torretta, quando mi si è sgretolato un pezzo di pietra in mano, facendo un volo di vari metri e sbattendo sulle rocce. Allora un mio amico che stava lì vicino ha citato una specie di espressione inglese che essenzialmente è “Chi fa giochi stupidi vince premi stupidi”. A noi la frase lì per lì c’è piaciuta, ci siamo riscontrati col fatto che nella vita sia io che Edoardo molto spesso abbiamo avuto l’impressione, quasi cucitaci addosso, che stiamo facendo giochi stupidi, che la musica – insomma io faccio il fotografo – che tutte le varie nostre attività siano dei giochi stupidi in confronto alle cose serie della vita – il lavoro, i mutui, la casa, le macchine – e quindi ci piaceva dare questo nome a quello che per noi è uno tra tantissimi giochi stupidi che alla fine sono tutti tanti giochi stupidi. Anche perché possono finire così, con una pietra sgretolata in mano, da cui viene anche la copertina del disco, che è una foto che ho fatto io nella zona di Castel Volturno con una casa abbandonata, una macchina immersa nella vegetazione, abbandonata anch’essa, e mi dava l’idea che alla fine anche le cose serie nella vita prima o poi diventano anche loro stupide, non ha troppo senso dare più importanza a una cosa che all’altra.
Come definiresti “Giochi stupidi”? Il suo genere, insomma…
Mah, noi abbiamo avuto sempre un sacco di difficoltà in realtà a dare un genere al disco. In parte perché diciamo che c’è una variazione interna molto ampia che è frutto dell’incontro di gusti musicali abbastanza diversi tra me ed Edoardo, lui che viene da un mondo un po’ più rockettaro, io dalla musica elettronica, e ne esce fuori qualcosa che può andare da della non-musica, come la trap, a dei pezzi che richiamano un certo tipo di trap nordica, a dei brani palesemente post-rock, a degli altri palesemente post-punk. Per me dare un genere che raccolga tutto l’album viene veramente difficile e in qualche modo era anche quello che volevamo perché rispecchia chi siamo questa ecletticità, l’incapacità di chiuderci su una singola cosa, l’incapacità di vederci in una sola veste.
E per quanto riguarda delle reference sonore?
In realtà essendo un disco che è stato scritto sull’arco di due anni ci sono più reference, più ispirazioni. Il disco, cioè quasi il nostro progetto musicale intero, nasce ispirato da un disco di uno degli alias di Yung Lean, che ha un progetto che si chiama Död Mark, un side project punk svedese: il disco ci è piaciuto tantissimo e a più riprese è stato tirato fuori a livello di sonorità. C’è un altro lavoro invece, di un altro artista, anche in questo caso nato come rapper ma che poi ha fatto questo disco particolare, non so neanche bene definire come genere: si chiama Lil Ugly Mane e l’anno scorso, se non sbaglio, ha fatto uscire questo disco che si chiama “Volcanic Bird Enemy and the Voiced Concern”, col quale siamo andati veramente in fissa e anche lì a più riprese prendi, apri, snoccioli, ok questo sound ci piace, dovremmo partire da qui. Questi diciamo i due “dischi madre”, poi in mezzo ovviamente ci sono gli antichi ascolti che possono andare dai Nirvana del liceo a sicuramente delle componenti elettroniche, c’è un artista che sicuramente ci ha influenzato molto che si chiama Shlohmo, che è un producer di Los Angeles… però diciamo se dovessi dirti i due capisaldi a livello proprio di produzione sono quelli che ti ho citato prima.
Sembra un lavoro molto intenzionato a definire un’atmosfera…
Sì, sicuramente è dovuto al fatto che è nato come una forte necessità di esprimersi, perché è un disco che attraversa tutta l’oscurità del Covid e periodi molto particolari della nostra vita. Sono successe cose molto importanti per entrambi e quindi penso si senta molto, perché di volta in volta c’era la necessità di calarsi dentro un particolare stato d’animo e rispecchiarlo, e questo alla fine ha creato ogni volta un mood diverso.
Al di là degli artisti o dei dischi chi o cosa vi ispira particolarmente nella scrittura?
Deve dire che in realtà andiamo abbastanza a braccio, cioè il grosso del disco – direi forse l’80% delle tracce – esce fuori da tre/quattro “chiuse”, di quelle in cui prendi ogni strumento che possiedi, ti butti in una casa e ci stai quattro giorni completamente immerso, sedici ore al giorno, mangiando in maniera malsana e cercando veramente di calarcisi. Tra l’altro noi siamo due persone – come tante – che non possono campare di musica, lavoriamo entrambi, però curiamo pure tutto l’aspetto grafico ecc., e per fare queste cose c’è bisogno veramente di infilarcisi del tutto, e quindi l’ispirazione secondo me viene in realtà dal suonarsi addosso più che da un qualcuno o un qualcosa che ci fa dire “Vorremmo essere questo”. Noi, più che vorremmo essere questo, noi vorremmo fare questo. A noi piace, ci dà tutto, ci piace la nostra compagnia, ci piace quello che esce fuori dalla nostra compagnia più di qualsiasi altra cosa, dalla prima nota al live, al disco uscito, ci piace quello, ci piace stare quattro giorni in una casetta a creare: quella è l’ispirazione.
Sembra scontato, col nome che avete scelto per il vostro progetto, della musica che abbia anche un contenuto politico, ma poi, magari, in realtà non è così. Come si affronta questa cosa? Come si vive la consapevolezza artistica di avere un nome che richiama a un personaggio così e portarla con sé nella produzione musicale?
Non c’è un buon modo di metterla, perché ovviamente uno prende una decisione all’inizio che non sa quanto poi avrà un peso sulle decisioni che uno prende, perché per esempio la nostra musica nasce in un periodo in cui la politica per noi anche era molto personale, nel senso che era un momento veramente difficile. Il progetto nel primo lockdown, tutti e due col lavoro perso, tutti e due tipo “Ma che diavolo abbiamo fatto fino adesso nella vita, che diavolo ci aspetta domani”, quindi era per forza politico, perché avevamo tutti e due da una coscienza politica, poi magari però ti passa quell’aspetto e magari vuoi parlare dell’amore e comunque hai questa necessità… ed è diverso. Ovviamente noi abbiamo sempre un problema: che entrambi in realtà cerchiamo di stare lontano dalla musica “conscious”, cioè da un tentativo di moralizzare e di dirti come si vive la vita; però allo stesso tempo siamo tutti e due interessati, curiosi e, in maniere diverse, attivi e inevitabilmente troviamo dei canali politici attraverso i quali esprimere anche una roba come appunto il rapporto tra le amicizie, perché tutto più o meno passerà sempre attraverso di quello. Quindi un pezzo come “Dove non prende” che parla di amicizie, parla anche del fatto che è sempre più difficile avere amicizie che durano una vita, perché siamo tutti costretti prima o poi a lasciare una città che amiamo, perché andiamo a cercare lavoro e viviamo sempre più sradicati, e questo rende certi rapporti difficili da mantenere, e i sogni di vivere insieme da qualche parte, lontano, diventano sempre più complicati.
E a proposito di rapporti, di amicizie, c’è un momento chiamiamolo “bromance” in “Per sempre”: pensavate fosse necessario fare una canzone di questo tipo? Pensavate che ci fosse un modo, pensavate fosse il momento magari di raccontare in maniera diversa una cosa come l’amicizia fra maschi?
In realtà ti direi che non c’è stata questa urgenza, cioè l’urgenza era un’altra: io ed Edoardo avevamo vissuto in completa simbiosi due anni interi della nostra vita, proprio inseparabili, e il pezzo è stato scritto nel momento in cui sapevamo che questa simbiosi si stava per rompere, non tanto perché io e lui non andavamo più d’accordo, ma perché ci siamo separati geograficamente e tutta una serie di altri motivi e appunto “Il sale in cucina ci scende dagli occhi” è letteralmente la scena in cui io sto facendo le valigie, vado in cucina e entrambi ci guardiamo e scoppiamo a piangere perché ci accorgiamo che sta succedendo. Così andiamo in studio quel giorno stesso a scriverla, perché l’urgenza era quella. C’era un’urgenza di raccontare qualcosa e di esprimere l’uno all’altro il proprio amore, la propria alleanza e raccontarsi, forse addirittura cercare di convincersi e dirsi “Ok, ci stiamo allontanando, ma la nostra amicizia, il nostro amore, è per sempre”. È per quello che è un pezzo che a noi tra l’altro tocca molto, è molto importante.
Quanto è difficile o quanto è facile parlare di Roma? Perché se pensiamo a certi racconti, anche struggenti, della provincia, Roma è sicuramente un’altra cosa, ma ciò non toglie che non ci sia qualcosa da raccontare…
Sicuramente è complicato. Roma appare in tantissimi nostri testi in tantissime vesti diverse, dal primo pezzo che abbiamo mai scritto che è “Codici” a, appunto, “Roma”, ad altri pezzi in cui compare magari in sottofondo. Per noi Roma rappresenta il rapporto con casa, cioè come ti relazioni con casa, con la casa dei genitori: è un posto che è sia un luogo sicuro sia un luogo da cui senti di dovertene andare a un certo punto nella vita. Poi io ed Edoardo viviamo la città in maniera diversa: Edoardo è serenamente imbevuto della città, io ho un rapporto più conflittuale, ma entrambi abbiamo un rapporto contraddittorio come tutti hanno un rapporto contraddittorio con la città, perché è un posto che ti strega, ti ispira, ti insegna da piccolo che cos’è la bellezza e allo stesso tempo è un posto paralizzante. Senza considerare che, per me, c’è un problema di fondo nell’atteggiamento romano, che è quello di non riuscirsi mai a prendere veramente sul serio, mentre in altre città non è così.
Ci avete messo tanto tempo a tornare, a fare quest’album: quale è stato il click che avete detto “Ok, adesso basta”?
Penso a un certo punto avevamo bisogno di far uscire cose. Noi produciamo tanto e con questo non intendo che produciamo tanta musica bella, semplicemente produciamo tanto, tanto materiale, e a un certo punto il materiale penso per qualsiasi artista diventa un mostro, una roba che ti perseguita: in parte perché finché è lì lo vuoi cambiare e migliorare e non c’è mai la parola “Fine”, finché o sei bravo tu a portela o non te la mette qualcun altro (che è il motivo per cui i manager sono ruoli anche importanti in questo mondo). Noi a un certo punto ci siamo trovati con troppa roba, e la volontà di voltare pagina perché siamo tutti e due ipercinetici, tutti e due abbiamo voglia del prossimo passo e l’unico modo per fare il prossimo passo era come liberarsi di questa musica, che era quasi parte di un mondo da cui ci stavamo allontanando, perché il rischio è anche di allontanarsi troppo da un pezzo, perché magari racconta un momento nel quale non ti trovi più. Quindi secondo me appunto il click è stato “È arrivato il momento di raccontare cosa sono stati questi due anni per noi”, in modo da poter cominciare una nuova fase, e siamo tutti e due molto contenti, in realtà, di poterlo fare e anche contenti di come sta andando il disco, nel suo piccolo ovviamente.