• di Giovanni Flamini •
È di ieri la notizia che Spotify, la piattaforma che permette di fruire pressappoco di tutta la musica del mondo, ha bloccato la sua versione pirata, quella “Modded by Paradox” che migliaia di noi avevano installato sul cellulare. Tralasciando tutti gli interrogativi del caso (tipo come sia possibile che una versione crackata di una delle app più famose al mondo possa avere una vita così lunga), la parte interessante della faccenda è arrivata quando centinaia di persone si sono rivoltate contro la società, lamentandosi del fatto di essere costretti a pagare 10 euro per poter godere degli stessi privilegi che la versione crackata offriva (come quello di poter ascoltare il brano che si vuole effettivamente ascoltare quando lo si vuole ascoltare) e arrivando addirittura ad affermare di sentirsi “truffati”. Una situazione che ha del paradossale e che ha suscitato varie riflessioni sullo stato dell’arte del nostro senso civile, ma che a guardare bene, nasconde molti spunti da analizzare.
Prima di proseguire, è meglio che specifichi che anch’io, come tanti, avevo la versione crackata di Spotify installata sul mio cellulare e che non provo nessun particolare senso di colpa. Al contrario, sento la coscienza pulita. Un po’ per il meschino senso di soddisfazione che mi assale ogni volta che riesco a truffare una multinazionale, un po’ per il fatto che bypassando la versione ufficiale di Spotify non credo di aver fatto alcun danno alla musica o ai musicisti, come molti paladini del perbenismo si sono affrettati ad argomentare. O perlomeno, non penso di aver fatto più danni alla musica di quanti Spotify stessa non ne abbia fatti.
Se siete della mia generazione, sarete cresciuti anche voi con quella pubblicità che al cinema, prima di ogni film, mostrava un ragazzo incappucciato entrare in un Blockbuster, infilarsi un dvd sotto alla felpa e poi uscire di soppiatto, mentre in sovraimpressione compariva la scritta minacciosa “scaricare film pirata è come rubare”. Una pubblicità abbastanza inutile, ma che sollevava un tema cruciale negli anni d’oro di eMule: l’arte va pagata e non è eticamente giusto approfittare dell’intrattenimento gentilmente offerto da migliaia di artisti, senza dare loro niente in cambio. La cosa non è servita a granché e il mondo ha continuato a scaricare film illegalmente, fino ad arrivare allo streaming e, infine, a Netflix. Stessa sorte è toccata alla musica: la gente ha scaricato impunemente per anni quei libidinosi archivi .rar del tipo “Led_Zeppelin_Complete_Discography+Live albums”, alla faccia dei negozi di dischi, finché non è arrivato Spotify.
Ora, l’intento con cui Spotify si è presentato al mondo è anche nobile: quello di tentare di far guadagnare qualcosa ai musicisti dagli streaming online, che nel frattempo sono diventati il principale strumento di fruizione della musica. Il problema è che Spotify ha tentato di porre rimedio a un problema che lei stessa, in quanto emanazione di Internet, ha creato.
All’alba del 2018, il progetto di Spotify è palesemente fallito: i musicisti non campano con gli introiti provenienti dalla piattaforma (o perlomeno non sono il loro principale mezzo di sostentamento) e i compensi sfiorano pericolosamente la soglia del ridicolo. In media, l’ascolto di una canzone su Spotify frutta a un artista un ricavo che va dai 0,006 ai 0,0084 dollari. Con un milione di ascolti si ricavano circa 5.000 euro. Ne deriva che la principale fonte di guadagno di un musicista, oggigiorno, è il live. Certo, negli anni il numero degli utenti di Spotify è cresciuto esponenzialmente, tanto da far diventare interessanti le cifre corrisposte agli artisti. Ma si può ragionevolmente affermare, senza paura di essere smentiti, che Spotify sia fondamentalmente irrilevante per il sostentamento di un artista.
Di conseguenza, chi si danneggia scaricando e utilizzando la versione crackata di Spotify? I musicisti? Non loro. Non abbastanza da nutrire dei rimorsi. E soprattutto, non nella stessa misura in cui li danneggiamo non comprando i loro dischi. Allora, forse, l’unico attore che stiamo danneggiando è una multinazionale multimiliardaria in gran parte corresponsabile dell’appiattimento artistico della nostra epoca.
Parliamoci chiaro, Internet ha completamente distrutto il mercato musicale. Ha prosciugato alla base qualsiasi provente a cui potesse ancora ambire una casa discografica all’alba degli anni ’00 e lo ha fatto ponendosi addirittura come una straordinaria utopia. Ha creato un mercato dell’attenzione il cui scopo principale è quello di catturare il nostro interesse per quei 30 secondi che siamo disposti a concedergli, rimodellando al ribasso tutto ciò che la musica e l’arte hanno ancora da offrire sul finire degli anni ‘10. Nessuno fa più soldi semplicemente vendendo dischi e il gusto della scommessa, dell’azzardo, da parte delle case discografiche è sempre più limitato dall’esigenza di sopravvivere in un mercato che si fa ogni giorno più selvaggio.
Certo, si potrebbe obiettare che se si utilizza un servizio a pagamento, qualsiasi esso sia, vada pagato. Ma questo discorso sarebbe valido se Spotify fosse effettivamente una scelta e non un’imposizione dall’alto. La società svedese è riuscita a monopolizzare il mercato musicale, rendendosi effettivamente onnipresente a chiunque sia appassionato di musica.
Qui lo dico e qui lo ribadisco: fino a ieri utilizzavo la versione crackata di Spotify e non mi sento per nulla in colpa. Anzi, se proprio volessimo fare del bene alla musica, dovremmo tutti disiscriverci in massa dal colosso musicale e farlo fallire. Poi dovremmo disertare definitivamente Internet e aprire i computer solo quando abbiamo intenzione di registrare qualche pezzo. Io, di mio, non pago Spotify ma faccio una cosa molto più stupida, fuori moda e senza senso: mi compro i dischi. Dal primo, l’album d’esordio di Bon Jovi, all’ultimo in ordine cronologico, un 45 giri originale inglese di “She Loves You” dei Beatles, i dischi hanno sempre rappresentato un punto focale di questa mia piccola, lussuriosa passione per la musica. Quindi, per quale motivo, esattamente dovrei sentirmi in colpa per aver utilizzato lo Spotify crackato? Per il fatto che, comprando dischi, la musica la sostengo fin troppo? Lamentarsi di chi non paga Spotify in un’epoca come la nostra è come essere vegani e andare in giro col giubbotto di pelle. O come lamentarsi dei vicini che fanno rumore mentre la propria casa sta andando a fuoco. Non ha senso. E se vogliamo veramente sostenere la musica, non dico di comprare i cd o i vinili, ma almeno restiamo un pochino meno ipocriti e facciamo pace col fatto di vivere in un’epoca contraddittoria, in cui nessuno sta capendo granché.
Invece avrai notato come dal 2013, anno dell’arrivo di Spotify, la musica indipendente sia cresciuta, come numeri e come incassi, grazie al fatto che le case disocografiche hanno avuto qualcosa in più da investire nella musica non “sicura” (vecchie glorie e X Factor), consentendo alla gente di avere prodotti migliori e di maggior diffusione e poter fare più concerti con più gente quindi guadagnando di più, motivo per cui sul medio periodo Spotify vale molto più dei dischi che ti compri.
Peraltro se davvero compri i dischi (cosa di cui dubito, dato che è la risposta di tutti i furbetti), perchè allora ascolti Spotify?
Se si usufruisce di un servizio si paga, come se si usufruisce di un lavoro.
Certo, siamo nel paese dove si vota per l’Honestah per poter avere i soldi gratis (ti immagino in questa schiera), ma dire “quanto sono fico perchè rubo 2,50/10 euro al mese alla musica” (poi immagino che tramite Exit Well tu ti nutra anche di accrediti invece di pagare i concerti e ti porti le birre da casa) mi pare veramente da poracci.
Peraltro se tu puoi usare gratis Spotify è solo perchè qualcun altro lo paga, tipo me, altrimenti il servizio sarebbe già chiuso.
E lo paga di più perchè tu non lo paghi.
Però cazzo quanto sei più intelligente di me, vuoi anche superarmi in coda al casello sulla falsa fila?
L’articolo pecca di coerenza e coesione del discorso. Per chi leggesse, attenzione, notate il pattern: ! ! …
ecco, questo pattern non fa dei discorsi solidi. Il tutto è riassumibile in mere giustificazioni al non voler pagare questi fatidici 5-10€ credendo la musica a quanto pare, un proprio diritto innato. Ma non lo è.
Esempio del pattern descritto: TUTTI SONO BLU! Insomma, essere blu è normale soprattutto quanto lo sono la maggior parte no? Sarei blu anche se non ci fossero i rossi.
Correggo, l’HTML parser mi ha fregato…
L’articolo pecca di coerenza e coesione del discorso. Per chi leggesse, attenzione, notate il pattern: *INCISO*! *Avvalorazione dell’inciso con distruzione dell’assolutismo dell’inciso* ! *Altra avvalorazione che distrugge l’assolutismo dell’inciso* …
ecco, questo pattern non fa dei discorsi solidi. Il tutto è riassumibile in mere giustificazioni al non voler pagare questi fatidici 5-10€ credendo la musica a quanto pare, un proprio diritto innato. Ma non lo è.
Esempio del pattern descritto: TUTTI SONO BLU! Insomma, essere blu è normale soprattutto quanto lo sono la maggior parte no? Sarei blu anche se non ci fossero i rossi.
la gente ha scaricato impunemente per anni quei libidinosi archivi .rar del tipo “Led_Zeppelin_Complete_Discography+Live albums”…
Aggiungerei
Archivi che puntualmente contenevano porno su porno!
Comunque, a me la versione crackata va ancora, solo che funziona solo con la ricerca e la radio