– di Riccardo De Stefano –
Come cambiano le cose, in pochi anni.
Qualche anno fa, quattro ormai, Achille Lauro si presentava a Sanremo come esordiente e si sprecavano le battute sul suo nome e sull’armatore. Era un quasi sconosciuto,una novità, un trapboy per ragazzini.
Oggi, è difficile trovare qualcuno che non sappia chi sia Achille Lauro, e noi invece lo ritroviamo ancora una volta su quel palco di Sanremo.
Ma tutto cambia e tutto muta, e così il Lauro di oggi non è il Lauro di allora.
“ACHILLE LAURO È IL DAVID BOWIE ITALIANO”
Quando nel 2018 Achille Lauro si presentò a Sanremo fu uno shock per tutti: immediatamente ci si divise tra chi lo amava e chi lo detestava, tra i puristi del rock e gli entusiasti del kitsch.
In uno dei miei articoli più letti – e criticati, e haterati, dovrei farvi leggere i direct che mi arrivarono – lanciavo un messaggio forte che ovviamente pochi hanno capito: “Achille Lauro è il David Bowie italiano”, a cui seguiva un “forse” per mettere in chiaro l’intento ironico e obliquo del pezzo.
Mettevo subito le mani avanti: non si parla di Bowie autore/cantante, ma del Bowie personaggio, di quel David Bowie che passa dall’ideale hippie al glam, al plastic soul, all’austerità espressionista, all’elettronica kraut, facendo di tutto e rimanendo sempre “David Bowie”.
Speravo che Achille Lauro potesse avere la stessa funzione nella musica italiana. (per inciso: rivendico ancora la validità di quell’articolo e non rinnego una parola detta)
DIVERSO DA LORO
Ricordiamocelo: erano anni di cantantini indie-pop minimali (tra quelli bravi e meno bravi) e piskelli trapboy fatti in serie e grosso modo tutti uguali. Un volto uguale all’altro e una serie di canzoni ripetute col copia-incolla.
Quindi Achille Lauro a Sanremo, prima di vederlo e sentirlo, sembrava profetizzare l’ennesimo eterno ritorno dell’uguale: il trapper che avrebbe fatto la roba per i ragazzini, per poi scivolare nell’anonimato.
Invece, Achille Lauro ha riscritto il modo di affrontare il palco, concentrando tutta la scena su di sé e portando un brano, instant classic, quella “Rolls Royce” che poi abbiamo cantato tutti, anche gli hater probabilmente.
Era un brano divertente e Achille Lauro si presentava come qualcosa di “diverso”, ambiguo, forse non originale ma sicuramente non scontato. E in un mare di “tutto uguale”, qualsiasi cosa “diversa” vale oro.
Sarebbe stato bello – pensavo e scrivevo – se un artista si liberasse dai generi musicali, dalle etichette di forma e stile e facesse tanto di tutto, rimanendo credibile senza risultare patetico. Come era libero David Bowie di fare e essere quello che voleva: “there’s old wave, there’s new wave and there’s David Bowie” recitava uno slogan dell’epoca.
Quindi, sì, speravo che Achille Lauro potesse diventare un proto-Bowie italiano, capace di uscire dal cliché.
E per un po’ di tempo, secondo me, ci è anche riuscito.
C’ERA UNA VOLTA ACHILLE LAURO
Achille Lauro ha iniziato col rap, convertito in trap in “Ragazzi Madre”, ancora oggi considerato un cult del genere. Poi la svolta elettronica di “Pour l’amour”, che considero tuttora un grande album, pieno di influenze musicali e stili, sintetizzati furbescamente come “samba trap” e quindi “Rolls Royce”, il rock’n’roll chitarristico vintage, “1969” e una manciata di buone canzoni.
C’erano tutte le prospettive per una carriera di alto profilo, senza palesare Lauro come un genio della musica, ma comunque con una chiara e definita visione artistica, rivendicata e spalmata anche su altre espressioni (i libri, i quadri, la moda, etc).
Certo, sicuramente se poteva essere “un” Bowie italiano, di sicuro non era IL David Bowie italiano, e qui sta la differenza tra i due: Bowie, qualsiasi cosa abbia fatto, ne era l’espressione migliore; Lauro no, perché non è un genio della musica.
DIECI CARRIERE IN UNA
E quindi il patatrac: dopo il secondo Sanremo che lo aveva rilanciato come personaggio divisivo e complesso, orientato verso il rock teatrale e la performance visiva, arriva il Covid, il lockdown e la chiusura di tutto. E così tutti i progetti di Lauro vanno a farsi benedire.
E i cambiamenti promessi, i dischi e i singoli “sperimentali” vengono sparpagliati in giro in fretta e furia, per mantenere l’appeal del personaggio alto senza però riuscire a consolidare la centralità nella scena.
Escono “1990”, un confuso disco di cover rivisitate di brani dell’epoca – non senza fascino, ma comunque senza mordente – e qualche tempo dopo “1920”, un ancora più confuso disco di rivisitazioni proto-jazz, di cui non si coglie né il pubblico di riferimento, né il bisogno.
In mezzo tante dichiarazioni (“il prossimo disco cambierà la musica italiana”), tante apparizioni contraddittorie (Lauro conduttore di Extra Factor? O Lauro profondo artista trasversale? Lauro amicone di Mara Venier o personaggio divisivo?) e pochi singoli efficaci realmente.
Così Lauro torna a Sanremo ma da Super-Ospite, in quel Sanremo senza pubblico, già retorico di suo e reso ancora più retorico dalle messe in scena di Lauro (e del suo staff), con quei suoi “quadri viventi” sempre sopra le righe, a volte divertenti a volte solo kitsch.
E quindi l’ultimo “Lauro”, passato fortemente in sordina, come una raccolta di brani rimasti fuori dal resto delle produzioni, senza singoli capaci di sfondare e un pubblico sempre più affascinato dai nuovi fenomeni pop (come Blanco), rock (come i trionfali Maneskin) e rap (troppi nomi da fare).
SANREMO 2022: LAURO E IL FLOP DI “DOMENICA”
Lauro si ritrova così con una carriera convulsa, un’evoluzione stilistica che poteva essere distribuita in due decenni compressa nel giro di due anni, incapace di convertire tutto quell’hype in numeri reali, chissà se per mancanze sue o per la situazione mondiale di blocco.
E infine la notizia più triste: il ritorno a Sanremo, anche stavolta farcito di hype autoriferito, più l’annuncio di un altro “ultimo album prima della svolta” e altri proclami che ormai vanno un po’ a vuoto.
Tanto più che il pezzo di Sanremo, “Domenica”, è tutto sbagliato.
Il primo suicidio artistico è stato tornare su quel palco per il quarto anno di fila, rendendo Lauro più simile a Le Vibrazioni o a Noemi che a un visionario sperimentatore.
Il secondo, il brano in sé: “Domenica” è una copia su carta-carbone proprio del brano che lo lanciò al grande pubblico, quella “Rolls Royce” accusata di istigare alle droghe, insultata urbi et orbi e “the great rock’n’roll swindle”.
Solo che “Rolls Royce” era un brano di rottura, con una precisa poetica decadente e una esibizione sopra le righe, infarcita di “oh sìsì” e stonature che rendevano Lauro – nel bene e nel male – unico e particolare.
“Domenica” è un acquired taste, un “oh no di nuovo” che non sconvolge più nessuno con le sue provocazioni, neanche L’osservatore Romano.
Il pubblico non lo celebra, la sala stampa lo affossa e soprattutto non ne parla realmente nessuno: un passo falso di un artista di cui non siamo più sicuri di capirne il percorso. Quando arrivi a ripeterti in maniera così didascalica e smaccata, c’è da pensare e ripensarci su, a chi sei e quello che vuoi fare davvero.
Prima che sia troppo tardi, prima di diventare un “has-been”, un “è stato”.
ACHILLE LAURO POTREBBE ESSERE SOLO ACHILLE LAURO. FORSE
La verità è che ci abituiamo a tutto, anche a come cambiano le cose. E le cose cambiano, per tutti e rapidamente.
Lauro non è il David Bowie italiano non solo perché non ne ha il talento, ma perché ha messo davanti l’anima imprenditoriale a quella artistica, perché ha avuto fretta e paura di scomparire, di prendere quel posto tenuto da parte da Dio prima che andasse sold out – tanto di concerti veri non ce ne sono stati.
Ma forse Lauro è ancora in tempo. In tempo per essere se stesso e non un’auto parodia.
Può smetterla di dover “fare l’artista” e tornare a fare musica, senza pensare all’effetto che avrà sul grande pubblico. Può concentrarsi su pochi prodotti mirati e su un percorso coerente, senza saltare di qua e di là cambiando sound, stile e maschera ogni tre mesi.
Perché Lauro non è David Bowie, ma un talento ce l’ha: quello di avere una visione più ampia del mero pensare alla musica come “il lancio del singolo”, e su questo in Italia è il migliore (o quasi).
Di sicuro, di Achille Lauro ci ricorderemo in futuro, anche se ancora non sappiamo come: sarà il fuoco di paglia di una stagione o qualcuno effettivamente capace di lasciare qualcosa?
Mi piace pensare che la sua carriera sia ancora all’inizio, e non già finita nel tritacarne dei personaggi del Bel Paese che si diverte tanto di fronte alla TV.