– di Edoardo Biocco.
Foto Chiara Mirelli –
Ad ottobre dello scorso anno è uscito “Tradizione e Tradimento” il nuovo album di Niccolò Fabi – un grande pezzo di cantautorato italiano ed espressione della sua sensibile lettura del mondo – che lui ha poi portato sui palchi di tutta Italia. Abbiamo avuto modo di rivolgergli qualche domanda riguardo il disco, riguardo la Targa Faber alla carriera che ha ricevuto il 16 gennaio 2020, e anche riguardo la musica in Italia, in Europa e altro ancora.
Partiamo dall’inizio, dal titolo: “Tradizione e Tradimento”. Qual è stata l’idea nel mettere insieme due idee così diverse?
L’idea è quella di descrivere uno spazio possibile delimitato da queste due parole, perché son due parole che fanno un cortocircuito, che sembrano andare in direzioni opposte. Invece gran parte del materiale del disco nasce dal dissidio, da questa doppia voglia: da una parte di rispettare la memoria, le cose fatte e l’identità raggiunta e acquisita; dall’altra la necessità di sorprendersi, di tradirsi, andare oltre e portarsi in un altro luogo. Sia la musica, sia le parole, infatti, sono un po’ figlie di questa tensione.
Infatti proprio nel brano “Io sono l’altro” all’elenco delle varie figure sociali segue l’invito a mettersi nei panni dell’altro. Cosa succederebbe se ci si mettesse davvero in questa condizione?
Probabilmente si giudicherebbe in maniera diversa l’operato degli altri, ci sarebbe più compassione verso il prossimo. Questo non eviterebbe le tensioni che fanno parte della natura umana, però la dose di aggressività che ormai coviamo uno nei confronti dell’altro (aldilà di tutte le questioni sociali) deriva anche dal fatto che non siamo più abituati ad empatizzare, e questo acuisce più che creare le tensioni interpersonali. Un po’ più di educazione civica, forse, aiuterebbe. Sarebbe auspicabile anche perché aiuterebbe a vivere in un mondo che è sempre più popoloso e tendenzialmente anche da persone che possono darci fastidio. Basti pensare a come la crescita zero del nostro paese si contrappone alla crescita esponenziale di altri stati che verranno via via abbandonati per cercare ospitalità altrove. Quindi anche dal punto di vista della propria sopravvivenza, è importante imparare a fare i conti con questa cosa anziché innalzare muri che ci separano uno dall’altro.
E per quanto riguarda l’ispirazione di questo disco? Scrivere solo quando si ha l’ispirazione è un’utopia o è possibile?
In realtà dovrebbe essere la prassi… Ho visto che è uscita come frase a effetto nei titoli di qualche articolo, era una frase banale, nel senso che do per scontato che scrivere sia quello, non la rivendico come qualcosa di eccezionale. Poi sappiamo che nel momento in cui lo scrittore entra in quel meccanismo di mercato è vero che intervengono dei fattori che possono obbligarlo a cercarla anche quando non ce l’ha. Fortunatamente fino adesso io sono riuscito a scongiurare questo pericolo, spero che la vita mi concederà ancora di poterlo fare.
Ma quando grazie a questa ispirazione si raggiunge il successo, è difficile concentrarsi solo sulla propria musica?
Se per “successo” intendiamo aver raggiunto una credibilità sufficiente presso un numero di persone sufficiente all’espletamento dignitoso del tuo lavoro di musicista, questo lo devo all’essermi liberato sempre di più dalle pressioni, (anche pressioni che io facevo verso me stesso non solo quello del mercato brutto e cattivo) dalle aspettative della famiglia, degli amici. Avendo raggiunto questa consapevolezza nel momento in cui ho lasciato perdere qualsiasi preoccupazione riguardante le aspettative, lo sento quasi come un dovere il concentrarsi sulla mia musica.
Quindi, vista questa tua posizione e vista la vittoria della Targa Faber, per te cos’è il cantautorato italiano?
È qualcosa che viene abbastanza naturale. Poi se osserviamo negli anni quali sono i fenomeni musicali che hanno più inciso nel nostro immaginario sono quasi sempre cantautori, probabilmente perché in Italia è una forma che sentiamo come naturale. Ovviamente si è trasformata nel tempo, più si va avanti e più diventa difficile per le nuove leve trovare degli “spazi vuoti” e linguaggi inesplorati, specie nell’ottica della canzone che è uno spazio artistico relativamente piccolo. Già la mia generazione ha dovuto fare i conti con tutti quelli di prima, e i ragazzi di oggi hanno pure noi come ulteriore confronto! Insomma non è semplice, ma è pur vero che il cantutorato è una forma espressiva che in Italia è manifestazione di una necessità.
Stanno sparendo i termini “pop” e “leggera”, però. Pensi che fossero troppo dispregiativi riferiti alla canzone nostrana?
In effetti non saprei. Diciamo che c’è una uniformità maggiore della comunicazione che ha forse uniformato anche la percezione che si ha della musica, perché il modo che si aveva di percepire la musica pop (sia per come veniva diffusa, sia per i luoghi in cui si andava a sentire) era molto diverso. Il pop era una cosa ben definita in un luogo, se vogliamo anche lontano da altri, la rete adesso ha standardizzato tutto, un post su Instagram lo fanno tutti, a prescindere dal genere musicale. Questo già fa sì che ci sia più confusione: alcune forme di comunicazione potrebbero sembrare più pop di altre, poi aggiungici la massificazione di internet e il fatto che il web sia il solo posto in cui cerchi qualsiasi cosa, ed ecco che potrebbe essere spiegato l’abbattimento di certe “barriere” nei generi e nella definizione. Pensa a quanto l’indie sia, come fenomeno attuale, confuso con il pop nonostante ci siano differenze stilistiche o ideologiche. Avviene questo mescolamento che ha al suo interno dei lati positivi, così come dei lati maliziosi di chi gioca a stare un po’ di qua e un po’ di là, chiaramente, ma fa parte del marketing attuale.
Anche se internet è il “posto in cui cerchi qualsiasi cosa”, esiste ancora la radio. A te capita di ascoltarla?
Ammetto di ascoltarla poco! Non facendo un lavoro che mi porta a stare in macchina nel traffico ogni giorno, o in un negozio in cui bene o male tieni la radio sempre accesa, ho un po’ perso il contatto con il mezzo. Ed è un peccato perché concettualmente la radio è stato nella mia infanzia un luogo privilegiato per scoprire cose nuove e anche la sorpresa derivata dal fatto che non fossi tu a scegliere era una cosa molto bella, o ancora le notti passate ad ascoltare Rai Stereo Notte. Ora le radio più commerciali raramente propongono della musica che mi interessa, o un linguaggio da parte degli speaker che mi racconti qualcosa di interessante, anche per questo ha perso appeal per me. A volte, proprio su internet, mi sintonizzavo su una radio francese, ma ho smesso presto…
Già che hai citato una radio francese è il caso di ricordare che il tuo tour prevedeva molte tappe europee, ovviamente ora rimandate a causa dell’emergenza Coronavirus, a proposito di cui hai scritto sui social:
«Prevedibile e inevitabile. Motivazioni organizzative, di buon senso e di stato d’animo tutte verso l’unica amara scelta possibile. Non vorrei aggiungere altro su questa esperienza di vita che ci unisce tutti, perché ho bisogno di tempo per rendere concreta una sensazione travolgente ma ancora quasi irreale. Se c’è una cosa che questo momento può insegnarci è anche il valore della sospensione, della pausa, del silenzio, dell’ascolto, persino della noia. Magari per capire, imparare, correggere e migliorare. Per il resto le canzonimie sono sempre lì a disposizione di chi voglia trovarci un sorriso o un conforto. Ci vediamo dopo».
Ma secondo la tua esperienza passata e la tua idea attuale, che aria tira in Europa, anche aldilà della musica?
Noi abbiamo fatto l’ultimo giro tre anni fa quindi non saprei bene cosa aspettarmi. Inevitabilmente noi suoneremo in gran parte per la comunità italiana che vive ad Amsterdam, a Berlino etc. e quello che a volte possiamo vedere con più precisione è il grado di integrazione che raggiunge la nostra comunità con quella locale. Spesso te ne accorgi dalla quantità di autoctoni che vengono a sentire il concerto, perché sono quelli che la maggior parte delle volte vengono invitati dai loro amici italiani. Per banale che sia a Barcellona o Madrid ti aspetti una maggiore partecipazione di spagnoli, non tanto per le lingue simili ma perché gli italiani sono molto più integrati nel tessuto. Magari ad Amsterdam, più internazionale, è meno facile vedere olandesi che vengono alla serata, e questo per noi è un termometro interessante. Chiaro che la tipologia di pubblico e di ragazzi che viene al concerto è la stessa che viene quando suoniamo in Italia, e spesso sono ragazzi che hanno fatto una scelta attiva, con cui è affascinante incontrarsi. Ci capitò con Max e Daniele (Gazzè e Silvestri, ndr) quando facemmo il tour europeo con tanto di documentario, di confrontarci con ragazzi italiani che avevano fatto una scelta importante e ci ha arricchito comunicare anche con loro. Noi forse, portando un aspetto positivo della cultura italiana, accendiamo un po’ la nostalgia, o comunque gliela amplifichiamo. Loro sono certamente contenti di essere andati via perché magari a livello lavorativo non trovavano possibilità, però rimane sempre nelle orecchie la frase che ci sentimmo dire a Parigi “Siete la parte dell’Italia che ci manca di più”. E questo ti fa rimettere in contatto con quelle cose sane del nostro paese, e forse noi ci sentiamo ambasciatori di quella parte che può mancare,
Venendo all’oggi, come già detto, tu e gli Ex Otago siete i vincitori delle targhe del premio De Andrè. La definiresti una tappa del tuo essere cantautore?
Sai, è un premio alla carriera. E questo, prima di qualunque altro discorso, è un riferimento forte, che premia qualcosa che si è già compiuto, una definizione generazionale, di età che comunque fa impressione perché certifica il passaggio al settore “onorificenze alla carriera” e se vogliamo anche a livello esistenziale è un passaggio importante da accettare, che porta lati positivi e negativi. Ho fatto delle cose che sono state apprezzate: molto bene. Ho tanto alle spalle e meno davanti: molto male! Tutto questo ancor prima dell’accostamento del tuo nome su una targa a quello di Fabrizio De André, che per chi fa il cantautore ha un peso, perché aldilà dell’aspetto artistico specifico, c’è un significato simbolico molto grande. Comunque a Faber si collega secondo me un salto di considerazione che la canzone ha avuto nei confronti del pubblico, cioè da arte povera di intrattenimento, ad un’arte che può aspirare a una nobiltà poetica. E questo per chiunque rappresenta un attestato prestigioso.