Un esordio si fa per dire. Di sicuro è l’esordio con il nome Naddei. Di sicuro, Franco Naddei o meglio Francobeat, tra collaborazioni e scritture personali, ha una carriera davvero densa di musica, di soddisfazioni e di pubblicazioni. Ma come NADDEI è la prima volta che si mostra in pubblico e realizza un’introduzione a questo che a quanto pare dichiara di essere un suo nuovo percorso.
Esce “Mostri” un Ep di 5 brani in cui ritroviamo capisaldi e grandi colonne reinterpretate dalla sua elettronica digitale. Naddei canta così De André, Battiato, Ciampi, Tenco e CCCP in un mood austero a tratti, cavernoso e noir, celebrando questi grandi del passato, questi mostri che forse un poco vuole anche esorcizzare negli effetti eterni della loro scrittura. Un disco interessante, di ottimo gusto ma soprattutto ricco di grandi spunti su cui riflettere. Anche se banalmente qualcuno voglia chiamarlo un disco di cover, o di omaggi d’autore, “Mostri” ha un sottotesto di grandi significati sociali… e non tanto nelle canzoni che ormai conosciamo a memoria, ma nel concetto di questo lavoro, nella visione di questi passaggi d’arte che oggi contaminano le nuove frontiere della canzone. Sono come mostri, un po’ in senso di grandezza e un po’ in senso di spaventose ancore dalle quali non abbiamo ancora la forza di staccarci. Forse… almeno questa è la mia chiave di lettura.
Un vero piacere ritrovare Francobeat. Perché da qualche tempo sei diventato semplicemente Naddei?
Diciamo che il tempo passa, cambiano le cose intorno e noi con loro. Francobeat ha fatto 3 dischi concept il cui ultimo, “Radici”, è stato sicuramente un apice della sua carriera. Stiamo parlando di un “artista” di nicchia ma che ha sempre fatto un onesto lavoro proprio sui concetti che ogni album aveva al suo interno. Da “Vedo beat” che raccontava la storia della beat generation italiana, a “Mondo fantastico” con i testi di Gianni Rodari a “Radici”, si è praticamente conclusa quella “Trilogia della fantasia” che è naturalmente emersa dalla sua discografia.
La fantasia ribelle dei beat, quella strutturata ed autorevole di Rodari e quella totalmente fuori controllo dei disabili mentali di “Radici”. Un percorso che mi è sembrato concluso egregiamente e per il quale, il mondo sonoro ha sempre vagato tra i generi più per assonanza coi testi che ha avuto tra le mani che per reale necessità espressiva. Francobeat era una specie di David Byrne al quale si è sempre ispirato, proprio nella varietà di generi e suoni.
Ho quindi sentito il bisogno di sintesi e soprattutto di tornare al mio primo amore sonoro, la musica elettronica. Ho prodotto artisticamente molti dischi e spesso chi mi ha voluto ai pomelli ha proprio cercato quel suono che io ho prontamente dato, divertendomi e sperimentando (tra tutti l’esperienza coi Santo barbaro). Ho pensato che era ora di dare a Francobeat un suono ben preciso, e lui ha detto che non gli andava bene. Ne abbiamo parlato un po’ ed abbiamo deciso di separarci amichevolmente, così è nato Naddei.
Pagina bianca, nuovi stimoli e nuovi orizzonti.
E se non ci fosse l’elettronica come ti piacerebbe rivisitare questi santi “mostri”?
In realtà è proprio per pensare con attenzione al suono che ho deciso di affrontare dei brani che amavo e che ho scoperto grazie a questo nuovo percorso. Non ho mai amato tanto la musica italiana e il fatto che potessi rendermela più consona, a livello sonoro, mi ha intrigato al punto che non mi sono curato di chi avesse scritto cosa. Forse può risultare quasi spocchioso decidere di smontare e rimontare a piacimento i grandi della nostra canzone d’autore, ma a me serviva proprio questo: brani scritti meravigliosamente da cantare su questa elettronica che avevo bisogno di far tornare sotto la mia voce. Non è un tributo né un esercizio di stile ma una reale necessità di affrontare il linguaggio cantautorale con uno sguardo verso il futuro, innanzitutto il mio!
Restiamo sul tema. Il “Cantautorave”: divertente definizione. Come racconteresti di un rave a chi si è svegliato in questi nuovi anni mille?
Mah, io non sono mai stato ad un rave. La definizione è venuta fuori chiacchierando con Giacomo Toni durante la lavorazione di “Mostri” e mi sembrava divertente poter pensare di ballare e sballarsi con Tenco, Battiato, De André e gli altri nostri grandi cantautori .
Da quel che percepisco le nuove generazioni non hanno un grande senso di ribellione o di necessità di sballo, o perlomeno non come la intendevamo noi nati negli anni ’70. La libertà che hanno è talmente vasta che probabilmente non sentono il bisogno di doversi ribellare a qualcosa, a qualcuno o a qualche ruolo in particolare. Sicuramente dovrei spiegargli innanzitutto questo concetto. La determinazione del carattere e del pensiero stabilisce i confini oltre i quali c’è il confronto, l’ignoto, il pericolo e questo dovrebbe generare elettricità di pensiero e azione.
In un rave ti butti proprio in quella condizione, sai che vuoi divertirti, esagerare ma non sai cosa realmente questo possa comportare. E poi c’è la questione aggregativa. Non so quanto i nati nei nuovi anni mille abbiano il senso del trovarsi, uscire insieme, fare cose nel mondo reale senza paura di sbagliare, di non trovare la strada senza navigatore, di non dover tirar fuori il telefono per far vedere dove si è, con chi e in che stato.
Dici che la decisione di scegliere un brano nasce dalla lettura del testo. Se ti somiglia allora sarete amici. E come scegli poi che abito darle? Cioè come nasce questa produzione?
Tutto al massimo dell’istintività. Ho usato un set molto semplice che mi permettesse di ragionare coi suoni elettronici come se avessi la chitarra in mano.
Provavo a cantare e suonare insieme le linee base e se mi divertivo e mi sentivo il testo incollato addosso voleva dire che era il pezzo giusto ed il vestito a buon punto. Io credo che le parole delle canzoni contengano in sé suoni e ritmi che aleggiano sornioni tra le note dell’autore. Alcune canzoni di “Mostri” sono state scelte leggendo solo il testo senza nemmeno conoscere o ricordare bene la parte musicale originale, e questo mi ha permesso di concentrarmi sul testo, sulla storia, sul suono delle parole e su quello che mi stava dicendo veramente. Ed è lì che ho trovato sempre la chiave di lettura.
Poi mi sono dato da subito dei limiti, proprio per determinare un suono unico per tutti i brani e devo dire che alla fine, ho proprio pensato che sembravano tutti scritti dallo stesso autore. È stata una divertente conferma, avevo trovato il suono di Naddei che potrò estendere in futuro ai miei brani originali.
Un Ep: è inevitabile chiedersi se avrà un seguito. E quindi ce lo chiediamo…
Chiaramente si, ci sono 10 “mostri” in tutto e tutti hanno dentro una storia che mi riguarda e che mi tocca intimamente. Alla fine è diventato un concept anche questo e credo sia stato un bene. Se fosse stato un omaggio al cantautorato italiano nel suo enorme insieme avrei dovuto fare almeno un album quadruplo! Fortunatamente mi sono fermato a poche canzoni che mi sono sembrate una unica storia, la mia. Penso fermamente che sia proprio questo il ruolo di una bella canzone, raccontare una storia in cui ci si possa riconoscere. Magari sarà banale ma ne va del ruolo stesso della musica moderna che spesso trovo scritta per slogan come fossero post da mettere su un social e non lo trovo sempre sincero.
Le storie delle canzoni non sono sempre vere, ma la grande abilità di uno scrittore è proprio quella di farle apparire in maniera credibile come tali.
Ma poi perché scegliere la strada delle cover per battezzare questo nuovo corso artistico sotto vero nome?
Come detto è stata una necessità. Volevo stringere il campo sul suono e mi è stato più semplice farlo con canzoni belle, ben scritte e alle quali ho dato un senso tutto mio. Probabilmente non sono più i tempi delle cover ma proprio in questi ultimi anni ho assistito ad un mutamento del nostro cantautorato “giovane” che mi è apparso citazionista e molto riverente, sia nei riferimenti più nobili che in quelli più dozzinali. Non so se questi “nuovi cantautori” lo facciano per istinto, ricerca di efficacia e riconoscibilità o rispetto verso la musica dei loro genitori. Mi piacerebbe che ci fosse una specie di evoluzione della forma canzone italiana più che un continuo guardarsi indietro come se si fosse perso il momento d’oro.
Per quel che mi riguarda ho semplicemente voluto dire la mia togliendo ogni sospetto di mancanza di ispirazione o di sguardo verso il futuro. Ho reinventato qualcosa, non so se bella o brutta, ma a me emoziona ora cantare queste canzoni dal vivo.
Comunque credo che la musica vada creata e pensata per il domani, non per l’oggi.