– di Martina Zaralli –
Occhio non vede, cuore non duole. Così dicono. Eppure, il solo sapere della situazione disastrosa in cui versano moltissimi live club e professionisti dello spettacolo fa male. Tanto male. La lista dei palcoscenici della musica italiana – tra circoli, festival, rassegne – che hanno rinunciato in tutto o in parte a dare il via alla propria programmazione, prima estiva e poi autunnale, oppure hanno chiuso i battenti diventa purtroppo sempre più lunga e affollata. È il triste assembramento che mai avremmo voluto.
Fino a mercoledì scorso, nonostante la corsa della campagna vaccinale – 85 mln di italiani con prima dose, 41 mln di italiani con ciclo vaccinale completo – e nonostante le tante iniziative e appelli nati per accendere i riflettori sulle difficoltà del settore dell’intrattenimento e chiedere a gran voce un ritorno quanto prima alla “normalità” – da Bauli in Piazza a Scena Unita, a La Musica che Gira a Cultura100x100, passando per il “caso Cosmo” – sembrava che le istanze di artisti, pubblico e lavoratori dello spettacolo rimanessero inascoltate, in balia di una decisione continuamente procrastinata da parte dell’Esecutivo.
Poi succede qualcosa. Il 6 ottobre, il CTS dà via libera alla riapertura delle discoteche con capienza al 35% al chiuso e 50% all’aperto, sollevando non poche perplessità tra i titolari e addetti ai lavori e lasciando comunque irrisolto il nodo sulla percentuale di pubblico ammessa per i concerti del vivo. Il giorno successivo, il Consiglio dei Ministri approva il “Decreto Capienze”, rivedendo le percentuali di accesso alle attività culturali, sportive e ricreative: in zona bianca, per teatri, cinema, concerti la capienza consentita è del 100% di quella massima autorizzata, sia all’aperto che al chiuso, consentendo l’accesso solo con certificazione verde. Per le discoteche, la percentuale sale rispetto alla decisione precedente: 50% al chiuso, 75% all’aperto, purché sia garantita all’interno dei locali presenza di impianti di areazione senza ricircolo dell’aria. Per le manifestazioni sportive: 60% al chiuso, 75% all’aperto. Per i musei viene meno l’obbligo di distanziamento interpersonale.
Abbiamo raggiunto al telefono Simone Castello, fondatore dell’etichetta Costello’s ed ex direttore artistico dell’ormai definitivamente chiuso Circolo Ohibò, per una chiacchierata sull’ecosistema dei live milanesi. Ecco cosa ci ha risposto.
L’intervista è stata realizzata mercoledì 6 ottobre, attenendoci quindi ai dati e alla situazione fattuale fino a quel giorno.
Iniziamo da un bilancio. Hai organizzato in collaborazione con I Distratti alcuni concerti della stagione estiva del Circolo Magnolia di Milano: come sono andati?
Male, purtroppo. Nel senso che siamo stati probabilmente troppo ottimisti rispetto alla risposta del pubblico. I concerti svolti con le modalità richieste dalle regole anti-covid generano con difficoltà il giusto appeal per riuscire poi a lavorare bene, in termini di sostenibilità reale rispetto alle attività che si svolgono.
“Sostenibilità reale”, cioè in termini di capienza? E quindi di incassi? Abbiamo letto che proprio il Circolo Magnolia ha annunciato una chiusura temporanea, che si aggiunge a quella definitiva del Circolo Ohibò….
Il discorso sulla capienza è relativo nel momento in cui si ragiona ancora sulle sedute. Mi spiego: un locale ha una capienza legale di n posti che non coincide però con il numero di posti effettivi, cioè di quelli possibili nel rispetto delle normative anti-covid. Questo perché il numero effettivo dei posti (e quindi del pubblico) sarà il risultato di un’operazione tra gli n posti consentiti astrattamente dal locale meno lo spazio necessario per le sedute, meno lo spazio necessario per garantire il distanziamento. Se aumenta la percentuale di capienza mantenendo il distanziamento, la situazione cambia di poco e rimangono i problemi legati alla sostenibilità economica, cioè i costi dell’evento. Il nodo sta nella capienza al 100% senza sedute. Va detto inoltre che il concerto è anche – e soprattutto – un momento di condivisione per il pubblico: sapere di andare a un evento e dover stare seduti pone delle questioni di sostenibilità emotiva, oltre che logistica. Si finisce per lasciar perdere.
I base alla tua esperienza, dalle prime riaperture del 2020 ad oggi quali sono stati gli ostacoli che i live club hanno incontrato?
Faccio una distinzione tra attività outdoor e indoor, perché in quest’ultimo caso le difficoltà aumentano in maniera esponenziale proprio per il discorso della sostenibilità. Ci sono locali all’aperto che grazie ai loro spazi hanno potuto raggiungere durante la stagione estiva dei numeri interessanti. Ma dipende. I cinquecento posti del Circolo Magnolia, ad esempio, sono un numero infinitamente inferiore rispetto al numero di persone che abitualmente transitava in Festival come il MI AMI: parliamo di un ridimensionamento forse pari a un ventesimo del pubblico dell’era pre-covid. Per altre situazioni, il ridimensionamento unito allo spazio all’aperto ha mantenuto pressocché invariata la capacità di sostenere l’evento o la rassegna. A ogni modo, causa e conseguenza delle difficoltà sono assolutamente interconnesse: per produrre un concerto ci sono costi importanti, dal cachet dell’artista, all’alloggio, passando per cena e catering, permessi SIAE ed ENPALS, affitto della location, personale, integrazioni tecniche, e così via. È chiaro che con i costi che rimangono alti, si alza necessariamente il prezzo del biglietto per rendere sostenibile l’evento. Se poi a questa considerazione aggiungiamo che è diminuito l’entusiasmo del pubblico a partecipare a un evento con poche persone e distanziate, portare a casa un concerto è praticamente una missione impossibile.
Perché, secondo te, la risposta del pubblico spesso non coincide con le aspettative, andando molto al di sotto di una pseudo-normalità?
Ti rispondo ovviamente per Milano.
Milano è una città che ha tra il pubblico dei concerti una forte percentuale di universitari. A luglio Milano era vuota, e non so da quanti mesi gli studenti fuorisede erano già tornati nelle città di origine, dato che dovevano seguire le lezioni e sostenere esami tramite la didattica a distanza. Lo stesso discorso vale anche per i tanti lavoratori in smart working. In primis, quindi, è stato – ed è – sicuramente un problema di numeri, di presenze in città. Poi, c’è il fattore emotivo: assistere a un concerto da seduti, comporta vivere l’evento al 20%. Il concerto è un momento di scambio, di socialità, di comunità. Rinunciare all’elemento della fisicità non è un incentivo. La proposta musicale, rispetto al 2020, è stata quest’anno sicuramente più ampia (in termini di occasioni di eventi) ma ha frammentato la partecipazione, che è stata inferiore in media di almeno 4/5 rispetto all’anno precedente. Cioè il pubblico ha dovuto scegliere di partecipare a eventi irrinunciabili, oppure, a parità di costi, ha preferito un intrattenimento che consentisse più socialità. Ma voglio anche lanciare una provocazione: quanto la normalità attuale non sia impigrita dal divano e dalle serie tv?
Di questo passo quale scenario o quale rischio si prospetta per la musica live, soprattutto emergente, in Italia?
Come dicevo prima, provocando, penso che rischiamo di fare fatica a vincere una pigrizia ormai incardinata nelle nostre vite. Andiamo verso l’inverno, quindi mettiamo anche in conto che rimanere a casa può essere una preferenza fisiologica rispetto alla stagione. Dall’altro lato, però, guardando un po’ quelli che sono stati i comportamenti generale delle persone, penso che quando torneremo a una piena socialità questa vinca poi su tutto. Nell’immediato ovviamente il rischio rimane l’assenza di un’offerta musicale diversificata, che avrà come conseguenza un mercato abitato solo da grandi agenzie e da grandi artisti, che risponderanno alla domanda del pubblico. Ma in parte è già così: molti professionisti del settore hanno cambiato lavoro, venduto strumenti, attrezzature. Ecco, lo scenario potrebbe peggiorare.
Il CTS ha dato via libera alla riapertura delle discoteche con capienza al 35% al chiuso e 50% all’aperto. Cosa pensi al riguardo?
Penso che stiamo andando nella direzione in cui tutti speriamo. Potrebbe cioè essere un segnale di apertura per il settore della musica live: non avrebbe senso infatti fare i concerti da seduti e poi andare in discoteca dove puoi ballare in piedi. Se sono decisioni che arrivano dal CTS, sono sicuramente indicative dal punto di vista sanitario. Non sono comunque uno di quelli accaniti rispetto alle regole imposte, sono una persona responsabile e vivo con timore le conseguenze di scelte avventate, ma i dati attuali della pandemia dicono che si possono appunto svolgere attività in sicurezza. Non possiamo più aspettare. Da un punto di vista economico, non so quanto sia fattibile o conveniente organizzare eventi in discoteca con la capienza al 35% al chiuso e 50% all’aperto: se lo dicessero a me, relativamente a un piccolo live club probabilmente rimarrei interdetto. Magari però gli spazi più ampi (generalmente) di una discoteca consentono maggiori capacità di sostenibilità anche con queste sostenibilità? Non ne ho idea. Mi auguro però che sia un primo passo verso il ritorno alla normalità.