– di Riccardo De Stefano –
Nella traccia iniziale dici che c’è un te che risponde, ma non dice quasi niente.
Io non sono mai molto sicuro delle cose. Ma è questo, liberarsi delle forzature, che riguardano anche il mio mestiere, e godersela e liberarsi del superfluo. È stato molto liberatorio.
Ho notato un parallelismo tra due canzoni, “Quello che non so di te” e “Quello che siamo diventati”. La seconda esplora un nuovo amore. La prima invece?
Esplora il momento della mia vita in cui ho iniziato a fare questo mestiere. Non avevo niente, ma mi bastava. Parla di questo momento, ma senza malinconia. È una canzone che mi fatto sorridere quando l’ho scritta, e mi fa sorridere anche quando la suono. Volevo raccontare di quel periodo con una base musicale che la rappresentasse.
La tematica dell’amore è diventata sempre più centrale nei tuoi testi. Nel primo album eri più angustiato, forse?
Lo è sempre stata. L’essere riuscito a fermarmi, farmi domande e accettare le contraddizioni, mi ha permesso di amare di più, di avere più voglia di viaggiare sentimentalmente insieme ad un’altra persona. Chiaramente è cambiata la mia percezione dell’amore.
Parlare di amore è facile e difficile allo stesso tempo, essendo il tema più abusato della musica, anzi del mondo. Come ti muovi su questo filo sottile, come non cadi giù?
Scrivere di determinati argomenti mi fa paura, mi faccio tantissime domande. Quello che scrivo è frutto di tantissimi pensieri.
Tu sei stato, un po’ forzatamente, inserito nel calderone dell’indie. La tua, però, è un’anima rock, soprattutto nella dimensione dei live. Questo disco, anche per scelta strumentale, ci ha mostrato il tuo animo più cantautorale. Sento molto Guccini, quella sua spontaneità.
Guccini l’ho ascoltato molto, soprattutto in adolescenza. Anche nel primo lockdown avevo l’idea di fare una cover di “Canzone di notte n. 2”. Sembra scritta domani. Comunque, mi sono preso la libertà di far convivere diverse anime. Ad esempio, la mia passione diversi tipi di musica, dai Velvet Underground e De Gregori e Lucio Dalla. Io sono entrambe le cose.
In “Qualcosa di normale”, invece, dici: “Non ho più paura di stare a cantare qualcosa di normale”. In questo caso, “normale” e “semplice” sembrano avvicinarsi.
In questo caso sì. Tra l’altro questa canzone è stata scritta prima della pandemia. È stato il primo momento in cui mi sono fermato, dopo il tour, e non ho avuto paura. Era un periodo in cui non sentivo l’esigenza di stare in movimento per sentirmi vivo. Mi sono sentito bene anche stando fermo.
Se il disco è “semplice”, cosa ci rimane di complesso? Cos’è stato per te il complesso da togliere?
Negli ultimi anni è stato difficile far finta di niente, scappare, o accettare le contraddizioni. Spesso mi è successo di sentire a livello emozionale dinamiche eccessive. Sto cercando di non vedere tutto in bianco e nero, ma di accorgermi che i momenti belli possono convivere con pensieri infelici.
Parlando invece del tuo libro, Vivere la musica (Il Saggiatore, 2020) hai scritto una sorta di manuale, quasi forse per capirti tu in primis, più che farti capire dagli altri.
Il primo pensiero era quello di dare consigli a chi vuole iniziare a fare questo mestiere. Consigli anche pratici, visto che ci sono tanti esempi di scrittura. Anche qui, mi sono fatto tante domande e mi sono guardato indietro. Questo mi ha portato a capire cosa non era cambiato: la sensazione di solitudine, anche quando si sta insieme agli altri a fare musica. Alla fine, ho ripercorso dei passaggi della mia vita, senza scrivere un’autobiografia.
Nel libro parli dei cattivi maestri e dell’importanza di sbagliare. Parli di questo anche nel tuo disco. C’è stato un “errore utile” nel pensare questo album?
Tante delle tracce del disco non sono state troppo rifatte. Gli errori ci sono ovunque, ma convivono bene tra di loro. Anche in questo album, però, ci sono dei non perfetti allineamenti a livello di intonazione, che mi sono sempre piaciuti. Non li ho mai definiti un problema.
Il tuo disco precedente finiva con i violini e questo disco inizia con i violini, ma finisce con la musica elettronica. Può essere la direzione che prenderà il tuo quarto disco?
La coda strumentale di “Quando guardiamo una rosa” è una delle ultime cose che ho fatto. Quindi, è molto probabile che sia l’inizio di qualcosa che succederà dopo. A prescindere dai violini, mi piace finire i dischi con una domanda, che sia musicale o a parole. Comunque, potrebbe essere che ripartirò da qui, anche perché non la vedo come la fine di un disco, ma l’inizio di qualcos’altro.