– di Riccardo De Stefano –
Francesco Motta ha una dote rara. Ha la grazia e la delicatezza di un mastro vetraio nel creare qualcosa di fragile, bello e semplice, e di farlo con parole e note. Tre dischi in studio, da solista, simili e diversi: il primo, l’ormai quasi leggendario La fine dei vent’anni, incendiario e dirompente; il secondo, Vivere o morire, quasi in adagio e dagli ampi spazi sonori, cantato col cuore non più in gola, ma tra le mani; e infine Semplice, ultima fatica, figlia del mondo post-Covid, che ci mostra un Motta senza più l’ansia di dimostrare niente a nessuno, primo tra tutti a se stesso, ma capace di sedersi, guardarsi intorno, godere del passaggio del mondo che va avanti e cantare di quell’angolo di Vita che non ha bisogno di costruzioni retoriche e artifici musicali per dimostrare la propria assoluta, squisita, semplice bellezza. Lo abbiamo raggiunto per parlare di questo nuovo lavoro.
Come sta andando la vita in questo momento difficile è complesso?
Adesso bene, perché sono tornato a fare il mio lavoro, se Dio vuole. Poi, sono veramente tanto felice del lavoro che ho fatto. Ho passato dei momenti non particolarmente felici quest’anno, ma ho reagito con l’unica cosa che so fare: la musica.
Immagino che il periodo attuale spinga a ripensare il lavoro della musica. A parte l’urgenza espressiva, c’è l’assenza prolungata dai palchi.
Per me è stato proprio questo il problema. Dal momento in cui togli, in qualche modo, la vita reale, tutta la parte più bella, che per me è fare concerti, ti chiedi: “Perché dovrei fare un disco? Perché dovrei continuare a fare musica?”. Ho avuto timore, perché queste domande non me le ero mai fatte. Poi ho capito che se non faccio musica non respiro. Quindi sono tornato in studio, ho rimesso mano ai testi e ho scritto anche due canzoni nuove, che sono le mie preferite tra l’altro: “Quando guardiamo una rosa” e “Quello che non so di te”.
Tra l’altro il tuo disco precedente era proprio un live.
Guarda, io ho fatto un disco live e un viaggio in Australia. E, devo dire, meno male, perché ha attenuato la voglia di viaggiare e fare concerti che ho avuto durante tutto quest’anno. È stato assurdo. Anche tornare sul palco del Primo Maggio dopo così tanto tempo senza live.
Parlando del disco, prendiamo la parola “semplice”. Ho notato che compare in tutto l’album, ed è iconica, perché semplice non significa facile. Qual è secondo te la differenza tra queste due parole?
“Semplice” è qualcosa che arriva all’essenza, quindi devi capire cosa andare a togliere, che è la parte più difficile. Facile, invece, ha un significato totalmente diverso. Semplice lo associo proprio all’essenziale.
In “Via della luce” infatti dici: “Semplice è difficile e difficile è per sempre”. È quasi un modo per dire che questo album possa durare per sempre.
Quando lavoro ad un disco ci metto tanto tempo. Voglio poter dire che le mie canzoni non mi annoieranno mai e le porterò sempre con me. “La fine dei vent’anni”, ad esempio, l’avrò cantata mille volte, e non ce n’è stata una in cui mi sia annoiato. È importante portarsi dietro una fotografia in cui credi tantissimo. È il motivo per cui quando fai gli album non puoi pensare agli altri. Tanti non hanno pazienza di ascoltare un disco per intero, ma questo non deve portare gli artisti a lavorare meno bene.
Leggevo che le canzoni stanno diventando sempre più brevi e si tende a eliminare le strumentali che annoiano. Tu, invece, hai fatto l’esatto opposto, visto che apri e chiudi il disco con due lunghe parti strumentali.
Anch’io ascolto le canzoni in un altro modo rispetto a prima. Io, però, ho cambiato proprio concezione della musica. Mi capita di annoiarmi di una certa cosa e ho voglia di andare da un’altra parte. Però, mi sono creato quasi dei mantra, cercando di non distaccarmi troppo da quello che faccio.
Dal punto di vista armonico, hai avuto una predilezione per una particolare progressione armonica (*vedi la”Nota per nerd” alla fine della pagina). In questo disco ritroviamo questa idea musicale solo nel middle eight di “L’estate d’autunno”. Nel disco precedente dicevi: “Di cambiare accordi non me ne frega niente”, eppure in realtà sono cambiati molto in questi anni. Dove pensi di essere arrivato dal punto di vista della scrittura musicale, cosa ti piace suonare adesso?
In questo disco ci sono esperimenti inediti. Una cosa che abbiamo sperimentato in più su questo album, frutto del fatto che mi è accesa una luce dopo l’ascolto di un brano di Angel Olsen, sono gli archi. Insieme a Carmine ci siamo capiti, mentre un altro mi avrebbe preso per pazzo. A me questa struttura degli arrangiamenti, più corposa e “classica”, partendo da quello che faccio, piace molto e mi piacerebbe svilupparlo anche nei miei prossimi lavori. Inoltre, in questo disco mi sono spaventato meno. Ho sperimentato con altri strumenti, mi sono sentito più libero e di non forzarmi a creare una situazione di vertigine. Mi sono divertito tantissimo a lavorare a questo album, a condividerlo con la band, che adesso fa proprio parte del suono. Questa cosa volevo che emergesse anche nel disco, volevo che la dimensione live e questa si assomigliassero sempre di più.
Quello che si è perso in questi anni di synth pop è proprio la personalità degli strumentisti. Tra l’altro, ricordo che per Vivere o morire ci dicesti che ci sarebbe stata anche la partecipazione di Appino, raccontandomi: “Voglio che ci sia, non m’importa cosa fa”. Quindi è più importante avere la persona giusta, ancora prima della nota giusta?
Anche. In quel caso lì parlavo di un fratello, mentre ad esempio in questo disco qui c’è mia sorella. È una delle voci che mi piacciono di più in Italia. Comunque questo discorso funziona fino ad un certo punto. Andrea (Appino, ndr) è uno dei miei chitarristi preferiti. È un discorso autoriale, ma nel film giusto, in questo caso.
Parlando del disco, “Via della luce” è una finestra sulla tua quotidianità. Quanto è difficile mettere questa cosa in un disco in cui è forte la Città, una città non banale, poi, come Roma?
Quando sono arrivato a Roma l’ho sempre vista e descritta con un occhio esterno, al massimo di chi si sentiva adottato. Adesso sono dieci anni che vivo qui e ora è la mia città. Trastevere mi ha affascinato perché ci ho visto tanto la provincia. Per dirti, mentre in Vivere o morire vedevo tutto bianco o nero, la mia vita come una scelta binaria, in Semplice ho accettato che anche le contraddizioni fanno parte di me. In qualche modo sono più pronto ad osservare.
Il brano mi ha dato l’idea di te, su viale Trastevere, che vedi la vita muoversi, guardandola come un osservatore esterno, senza l’angoscia di inseguire qualcosa. Hai ricercato una felicità nei primi due dischi, e adesso è come se l’avessi trovata, ma la stai trattando con delicatezza, come una cosa fragile che hai paura di rompere.
Questa è la conseguenza del fatto che, per la prima volta, non ho avuto paura di fermarmi e di chiedermi come sto. Me lo sono chiesto tante volte, durante la pandemia. Avevamo tempo di farci domande, apparentemente banali, e dovevamo risponderci. E mi sono reso conto che c’era un modo nuovo di accorgersi della felicità e di raccontarla nelle canzoni. Per me è sempre stato più interessante raccontare il tormento, mentre invece mi piace raccontare la felicità, forse perché è più difficile rendersi conto di quanto si è davvero felici.
Questa cosa l’ho rivista ne “Le regole del gioco”. C’è un’accettazione o un distacco da un mondo che va in una direzione che non ti piace?
Stare alle regole del gioco, in qualche modo, significare giocare la mia vita. Non è arrivare a fare compromessi per fare bene, anzi. È accettare che ci sono delle regole. Questo non vuol dire che debba fare parte di situazioni che non mi piacciono. È accettare il fatto che ci siano.
*Nota per nerd:
La progressione prediletta di Motta è il passaggio dall’accordo del VI grado della scala maggiore all’equivalente del VI grado della scala minore, o per dirla facile, far seguire a un La minore un La bemolle. Questa progressione appare, ad esempio in “Prima o poi ci passerà”, “Sei bella davvero”, “Del tempo che passa la felicità”.