– di Riccardo De Stefano –
Forse non tutto il male viene per nuocere.
Se pensiamo agli anni ’60 e ’70, e con la visione distaccata di chi è venuto molto dopo quegli anni turbolenti, tutto il caos politico e sociale (lotte razziali, studentesche, di genere, guerra del Vietnam e quant’altro) ha permesso l’esplosione della migliore musica popolare, capace di fondere le nuove sonorità con le istanze socio-politiche, creando perfetti ibridi di poesia d’azione, militanza rock e avanguardia sonora.
Quindi forse pensare che stiamo vivendo il periodo più squallido e deprimente della nostra Storia politica recente (perlomeno da che ho memoria) può esser visto come un segnale positivo per la grande musica. Lo diceva Orson Welles, l’Italia ha vissuto centinaia di guerre e ha generato il Rinascimento, la Svizzera in secoli di pace ha tirato fuori il cioccolato e gli orologi a cucù.
L’IMPERO DEL DISIMPEGNO
Gli ultimi anni sono stati un trionfo per il nuovo mercato musicale, ma tutto il nuovo pop – soprattutto quello proveniente dal basso – si è orgogliosamente chiuso nel disimpegno cieco e antisociale, riverso nel proprio “io” fatto di disagio e nostalgia. Se vogliamo esasperare i toni, nella visione piccolo-borghese del “non sai quanto sto male in questo periodo”, mentre il resto del Mondo, quello fuori la bolla capitalistico-consumistica, lotta per sopravvivere.
Che poi sarebbe ipocrita dire che io – personalmente – non sia pienamente dentro questa stessa visione: siamo tutti borghesi, siamo tutti viziati, non è colpa di nessuno.
Tornando nella piccola realtà della musica di oggi, però, è bello notare come un certo interesse per quello che è al di fuori della nostra cameretta stia tornando. Il Pianeta sembra avere le ore contate, il Mar Mediterraneo è teatro di un orrore di cui una cospicua fetta della popolazione italiana gioisce, supportata da una classe politica che dell’ignoranza e della sofferenza altrui se ne fregia.
Forse ci eravamo scordati di come la musica potesse – dovesse? – raccontare il mondo circostante. Che si potesse dire “qualcosa” che a qualcuno non stava bene. Certo, è bello avere i palazzetti sold out (sempre che lo siano), essere passati da tutti i media generalisti e far innamorare tantissimi adolescenti. Chi non vorrebbe essere amato da tutti?
IL POTERE DELLE IDEE
Essere coerenti tra quello in cui si crede e quello che si fa, non nascondendosi dietro il facile e sporchissimo motto “fate musica, non fate politica”. Nessun colpevole – si intende – se si preferisce parlare di cuore, amore, solitudine e disagio. Però rivendicare le proprie canzoni, quando sono sentite e dirette verso un messaggio preciso, beh, oggi è ancora un atto rivoluzionario.
Lo sa bene Motta, protagonista in questi giorni di una polemica con le istituzioni. Ecco la storia in breve: Motta ha scritto una canzone sul padre, che “era un comunista” (uuh, oddio che parolaccia) e invita chi non la pensa come lui, cioè tutti i razzisti e fascisti, a non prendere parte al concerto. Motta ha portato a Sanremo un’altra canzone, ispirata dai racconti di chi quegli orrori di cui sopra li ha visti di persona e non letti da un tweet di un ministro. E Motta si è distanziato dalle posizioni del sindaco di La Spezia in termini di immigrazione, perché non affini al suo pensiero.
PATATRAC!
Ecco il solito cantante che “parla invece di suonare”. lui magari che è come tutti noi piccolo-borghese e si fa bello con cose che non gli competono. Lui che alla fine fa canzoncine. Il sindaco in prima persona si è mosso contro l’artista, e potete leggerne più facilmente qua.
Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, diceva qualcuno. Diciamolo: Motta non è un eroe. Solo un ragazzo che ha delle idee e ci tiene a difenderle. Sono i tempi attuali che ci spingono a trovare eccezionale il gesto, proprio perché si è perso sempre più il contatto col mondo reale, con quello che ci succede intorno una volta che ci ricordiamo che si può parlare di altro, oltre che di quanto ci sentiamo inadeguati e di quanto sia DAVVERO ORRIBILE la nostra vita.
Ogni canzone è un gesto politico e sociale, e anche non parlare di politica e società significa parlarne. Siamo impegnatissimi a definirci contrari (o favorevoli, chissà) a questa o quell’uscita del ministro o del politico di turno, ma salvaguardandoci dietro l’ottica facile del nostro semi anonimato da social e del fatto che noi possiamo fare poco da soli.
Ha quindi del commovente vedere come un certo tipo di musica stia tornando a parlare mettendoci la faccia, assumendosi i rischi, commentando sul palco, sotto il palco, con le canzoni e con i gesti che si può ancora credere in qualcosa, ci si può sentire ancora parte di qualcosa, nonostante tutto ormai sia post ideologico, post impegnato, o anche solo un post… sui social.
Sarebbe bello se i cantanti – dall’uno e dall’altra parte – non distogliessero lo sguardo, se riacquistassero il proprio ruolo nella scena affermando di avere idee, anche scomode, anche contrarie all’opinione comune. Non pensiamo a noi, piccolo-borghesi ventenni o trentenni ormai chiusi nel nostro piccolo mondo antico. Serve riacquistare la voce e il coraggio di prendere una posizione. Perché sul palco si può e si deve dire chi siamo, cosa pensiamo. Il tempo è scaduto.
Domando: le idee “scomode, contrarie a pensiero comune” dovrebbero essere in linea con il PD? O si può anche avere proprie idee che non coincidano necessariamente con nessuno degli schieramenti in campo?
Salve Antonio,
non ci risulta che nell’articolo sia nemmeno nominato il PD, come del resto nessun altro partito. Si parla appunto, di idee personali. Saluti