– di Riccardo De Stefano –
Nel disco c’è un sentimento un po’ duplice, da un lato l’aspetto più intimo e personale, dall’altro questa sorta di irrequietezza che dicevamo prima. Forse non a caso la copertina è divisa a metà e l’album è diviso da un intermezzo: è un tentativo di riconciliare due parti opposte?
Nella copertina io sono nella parte sopra. In qualche modo è come se mi fossi lasciato indietro una delle due parti. Nel disco inizio un nuovo percorso, mio, personale. Ma ci sono anche altre persone al di fuori di me, ci sono nomi di persone – io non li ho mai usati, solitamente nelle mie canzoni ci sono lui e lei. Sento un’apertura nuova e aprire delle porte – non solo a livello musicale, ma soprattutto a livello testuale – è difficile. Questo è un disco difficile ed è una soddisfazione, per me, sapere che ho aperto delle porte e ci sono entrato.
Hai sempre cantato i tuoi rapporti personali più stretti, come quelli famigliari. Penso a Mio padre era comunista e al duetto con tua sorella Alice in Qualcosa di normale, che in questo disco arrivi “finalmente” a nominare direttamente. Sappiamo come Mi parli di te sia un brano molto importante, che ti tocca anche emotivamente nel privato. Quant’è difficile mettere questa parte profondamente autobiografica in un testo e darla al pubblico col filtro della canzone?
Molto difficile. Però a un certo punto, parlando di quello che ti dicevo prima, del fatto di ripetersi, era diventata quasi un’ossessione. Mettere in campo elementi autobiografici era diventato qualcosa che vedevo come necessario. In questo disco ci sono anche più metafore, più immagini astratte, che mi sono servite ad andare fino in fondo, perché quell’atto necessario, per come lo percepivo io, rischiava di sfociare in un atto molto autoreferenziale.
Il titolo del disco ci riporta alla canzone di Ornella Vanoni, che dice: «Gli amici se ne vanno». Invece in questo disco gli amici arrivano! È di gran lunga il disco con più guests che abbia mai fatto.
Ho abituato il pubblico a non averne. Fa parte di questo “guardare altrove”. Ero in una fase di crisi della scrittura e a un certo punto ero arrivato al punto di non sopportare più la mia voce, c’era qualcosa che non andava. Non potevo però cambiare la mia voce, quindi restavano il testo e la musica. Scrivere con qualcun altro era una cosa che avevo già fatto, con Pacifico (E poi finisco per amarti), con Dario Brunori (Quando guardiamo una rosa), e aveva innescato un meccanismo di liberazione. Rifarlo con un attore coprotagonista che cantasse insieme a me mi ha sbloccato qualcosa, è come se mi avesse – paradossalmente – dato più sicurezza su me stesso, tanto nella scrittura che nel canto. È successo con Ginevra, con Willie. Per questo penso che sia fondamentale, quando faccio i dischi, non stare da solo, rispetto a un discorso sia musicale che testuale, di visioni diverse sui testi.
Nel caso di Giovanni Truppi è in un certo senso la chiusura di un ciclo, visto che dieci anni fa hai suonato in un suo tour. Ora che sono passati tanti anni, avete entrambi carriere importanti e avete condiviso molti palchi storici, di formazione, com’è cambiato il rapporto tra di voi? Come parlate di musica?
Con Giovanni c’è stato un momento in cui ci siamo sentiti meno. Stavamo tutt’e due a Roma, ma c’è una parte di vita in cui si inizia ad avere più problemi di prima e ci si sente sempre meno. Ci siamo sempre seguiti, comunque. Però poi ci siamo ritrovati un paio d’anni fa ed è stato molto bello, perché con Giovanni c’è davvero la stessa leggerezza che c’era quando ci siamo conosciuti. Ci si vuole bene.
Truppi, Willie Peyote e GINEVRA – che è una new entry – sono persone più vicine a te, anche solo per questioni geografiche, mentre Jeremiah Fraites [cofondatore e percussionista/pianista della band alternative rock statunitense The Lumineers, ndr] appartiene a un ambiente musicale che non arriva spesso in Italia. Che tipo di percorso c’è stato per arrivare a collaborare con un musicista importante e di talento come Fraites? Che cos’ha dato al disco e com’è stato per te lavorare con lui?
Quando mi è capitato di collaborare con musicisti internazionali, come Mauro Refosco, ma anche con Maria Chiara Argiro, una musicisti pazzesca che pur essendo italiana sta facendo un percorso meraviglioso nel Regno Unito, mi sono accorto che paradossalmente è più facile.
Io e Jeremiah ci siamo conosciuti perché i Lumineers hanno fatto un post in cui dicevano che stavano ascoltando Ed è quasi come essere felice. Quindi mi sono scritto con Jeremiah e quando è arrivato in Italia e ci siamo trovati c’era una grande libertà, che c’è stata anche con gli altri ospiti: la libertà di trovarsi e sapere che non necessariamente deve venir fuori qualcosa, che è una cosa importantissima. Capisco che discograficamente non è proprio quello che “loro” vorrebbero, ma è necessario. E infatti non ci sono stati intoppi, né con lui né con nessuno degli altri. È stato bello avere quella libertà nonostante con Jeremiah ci si conoscesse meno. Io sono andato a Torino da lui mentre ero in tour, lui mi ha fatto sentire, nel suo studio, questo giro di pianoforte e io sono impazzito. Ho detto: «Andiamo a registrarlo», così lui ha registrato il pianoforte e la batteria. Poi io ci ho messo più o meno due anni a scrivere il testo.
E com’è cambiato il testo in due anni?
Lo spunto iniziale era la parola “scusa” e quello che è cambiato fondamentalmente sono gli interlocutori. A un certo punto la parte “scusa” è stata messa alla fine del ritornello. È stata abbastanza un parto, questa canzone.
Nel corso degli anni sono cambiate tante cose nella tua musica. Ma una cosa mi sembra che rimanga, esplicitata anche nei titoli delle canzoni: la felicità. Dalla prima canzone del tuo album solista [Del tempo che passa la felicità, prima traccia di La fine dei vent’anni, ndr] a una delle ultime di quest’album, Maledetta voglia di felicità. La canti spesso, ma cosa significa per te la felicità?
Io sono convinto che alcune canzoni di questo disco potrebbero andare in un disco come La fine dei vent’anni e altre in Vivere e morire. Tipo Alice ce la sento in Vivere o morire. Non penso, però, che nessuna potrebbe andare in Semplice. Forse – sto pensando ad alta voce – mi è mancata quella rincorsa verso ciò che non c’è, in Semplice. E tra le cose da rincorrere, – non dico che non ci siano, ma si fa fatica a dar loro un nome – c’è sicuramente la felicità. La tranquillità, il sedersi.
Quel senso d’irrequietezza, quella volontà di uscire dall’autoreferenzialità, lo ritrovo un po’ nelle tue parole. In che modo pensi che i prossimi lavori riusciranno a superare La musica è finita? Se la musica è finita da dove si riparte, nei prossimi lavori?
Da un modo diverso di approcciarsi al testo, da questa cosa che s’è persa delle collaborazioni.
L’anno scorso, per una colonna sonora, mi sono ritrovato a prendere delle lezioni di tabla, anche se poi alla fine non ce l’ho messa. Questa cosa di fare lezioni, di approfondire lo studio di uno strumento, come sto facendo con il pianoforte, che avevo suonato con Giovanni e con Nada, ma mai nelle mie canzoni, mi ha fatto capire che c’è ancora un mondo infinito da esplorare e mi ha fatto tornare la voglia di farlo. Anche con gli strumenti che suono da anni nel mio stesso studio.
Se potessi scegliere di collaborare con qualcuno, anche in una collaborazione ideale, ipotetica, chi sceglieresti?
Con gli Smile. Non sapevo se dirti Thom Yorke o Jonny Greenwood, quindi ho fatto una crasi. Il modo in cui fanno le cose loro andrebbe insegnato nelle scuole di musica: non accomodarsi mai, ma nemmeno rimanere nella gabbia di dover per forza fare qualcosa di diverso. Li associo al modo in cui, secondo me, si devono fare le cose.