– di Riccardo De Stefano –
Francesco Motta, che si presenta al pubblico semplicemente con il cognome, ha pubblicato lo scorso ottobre La musica è finita, il suo quarto album in studio da solista, uscito per Sugar con distribuzione Universal Music Italia e anticipato dal singolo omonimo – che abbiamo recensito qui. Il numero delle pubblicazioni sale a otto se contiamo anche i due album con i Criminal Jokers, l’album live Motta dal vivo, di cui abbiamo parlato qui, e la colonna sonora di La terra dei figli (adattamento cinematografico della graphic novel di Gipi, che vede il rapper e attore Leon Faun interpretare il ruolo del protagonista): insomma, il cantautore ha alle spalle una carriera lunga e di successo e questa release si colloca senz’altro nella sua maturità artistica, ma con la volontà di non ripetersi e di proseguire con la propria ricerca e il proprio percorso musicale.
La musica è finita arriva a due anni di distanza da Semplice, un album uscito in un periodo al contrario molto complesso, quello del COVID e dei lockdown, e costituisce per certi versi una cesura rispetto al lavoro precedente del cantautore, a partire dalle numerose collaborazioni: oltre alla presenza di quattro artisti ospiti in altrettante tracce (Willie Peyote, Giovanni Truppi, Jeremiah Fraites, GINEVRA, quest’ultima anche co-autrice della traccia con Fraites), anche dal punto di vista della scrittura Motta si è avvalso della penna di diversi altri autori: Danno, Iacopo Sinigaglia, Emma Nolde, Francesco Bianconi, Nicolas Biasin, Coco Francavilla, Orang3. L’album, infine, è interamente prodotto da Motta e Tommaso Colliva.
Abbiamo intervistato il cantautore, a due anni e mezzo dall’ultima volta, e questo è ciò che ci ha raccontato.
Come stai, Francesco? Com’è tornare in tour dopo tanto tempo?
Tutto è al di sopra delle aspettative. Abbiamo sempre avuto un’asticella molto alta, soprattutto io e Gio [Giorgio Maria Condemi, chitarrista nella formazione live di Motta, ndr], che suoniamo insieme dal 2016. Diciamo che il fatto di avere delle persone nuove bravissime ha anche ricreato una certa “disciplina”. È un po’ come quando cambi psicologo o relazione: magari pensi di dover tornare indietro per rispiegare tutto quello che hai fatto, tutto il tuo percorso, ma in realtà la bellezza di una cosa nuova è proprio non guardarsi indietro. Ed è così anche musicalmente, un po’ perché siamo partiti dai brani nuovi, che hanno un altro suono. Ma anche quando siamo arrivati a quelli vecchi è stato così; c’era, in alcuni casi, la volontà di ripartire da come le facevamo nel 2016: Del tempo che passa la felicità si basa su un giro di chitarra classica, ma ci siamo accorti che negli ultimi anni questa chitarra classica non c’era più, quindi siamo tornati indietro. Su altre cose, soprattutto sulla parte psichedelica che portiamo in giro, quella in cui suono le percussioni, le intuizioni di Whitemary sull’elettronica e il modo di suonare di Davide [Davide Savarese, nuovo batterista della formazione, ndr] hanno dato proprio un’altra aria.
Whitemary è l’ingresso più “sensibile” nella formazione: è un’artista che si occupa di musica elettronica. La componente elettronica nelle tue canzoni forse c’è stata, ma mai come in questo momento. Era una necessità, quella di approdare all’elettronica?
Sì. Cioè, è sempre stata soppesata, forse perché – come racconto spesso nelle interviste – quando ho iniziato a suonare entrando in un negozio o sceglievi la chitarra o sceglievi un synth. Però rispetto a tutti i miei ascolti, a tutto ciò che mi piace, il mondo della musica elettronica era lì, che voleva venire fuori. Anche in altri dischi abbiamo fatto qualcosa con Mario Refosco. Musica elettronica vuol dire campionamenti e Mauro fa musica elettronica suonandola. Ti potrei far vedere alcuni strumenti che ha usato: sono convinto che almeno qualche giornalista ha pensato che fosse elettronica, invece era tutta suonata. Quella parte c’è sempre stata; adesso si è liberata. Per me è un modo per continuare a essere curioso, perché ora si è aperto un mondo e continuerà in futuro.
Mi piace l’espressione “si è liberata”. Semplice era un disco posato, delicato, in un certo senso anche fragile, come un oggetto da conservare. Invece in La musica è finita c’è una certa irrequietezza. Cos’è cambiato dalla fragilità che cercavi di preservare in Semplice all’insofferenza, alla voglia di rivalsa di La musica è finita?
Quando ho scritto le canzoni di Semplice venivo da un periodo drammatico, come tutti, anzi, per molte persone anche di più, cioè la pandemia, che si è sviluppata in parallelo con un cambiamento musicale di questo Paese. Per cui io mi sentivo in qualche modo da solo a portare avanti le mie idee, spesso lo ero: non si poteva uscire, non si poteva andare ai concerti, al cinema; non si potevano fare quelle cose lì che ti permettono di rubare le storie delle altre persone. Tra tutti i dischi che ho fatto Semplice è l’unico che è davvero la fotografia di un momento, mentre negli altri ho cercato di andare sempre un po’ avanti, di soffrire di vertigini scrivendo di cose che magari non capivo bene, com’è stato per La fine dei vent’anni e per Vivere o morire. Forse adesso è tornata quella cosa là, che m’incute timore. Forse anche la rabbia viene fuori dal non capire dove stare, che poi è la cosa che mi piace di più, quando scrivo le canzoni.
Una delle cose a cui dobbiamo far fronte è che il tempo passa e la generazione degli anni Dieci, quella dei millennials, ormai è grandicella, diciamo così. Tu sei stato messo, volente o nolente, nel famoso calderone dell’indie – anche da me – più che altro per comodità.
Sai come la penso, sai com’è partita. È stato un modo italiano di definire qualcosa che invece in America c’era veramente: un certo tipo di musica la facevano le etichette indipendenti perché le major non la facevano. In qualche modo è successo anche qui. Magari io ho meno canzoni di un certo tipo di pop – non è una parolaccia – ma ne ho pure io alcune. Tante canzoni di quegli anni lì, come spiega David Byrne [leader dei Talking Heads dalla fondazione nel 1975 allo scioglimento nel 1991, ndr], già si sentiva che sarebbero state cantate negli stadi. M’ha fatto anche comodo essere associato a chi faceva una musica che, almeno in potenza, era rivolta a un pubblico molto vasto.
In Semplice e in questo disco, forse in maniera minore, mi sembra che abbia voluto rivendicare la tua diversità, forse l’hai accennato anche prima dicendo che ti sei sentito solo a fare un certo tipo di musica. Ti sei sentito un outsider in questi anni, in cui hanno preso piede un certo pop e una nuova generazione di musicisti?
Non mi sento per niente solo perché ascolto un sacco di musica che viene da fuori dall’Italia, quindi no, ce n’è. Se il coraggio veramente sta nel passare dal fa diesis al fa quando sei in tonalità di la – non è che stiamo a parlare di Schoenberg – allora sì. Non so dove stia il coraggio, forse in un certo tipo di scelte produttive. Ma il vero motivo per cui faccio quello che faccio è che mi piace, è perché vengo da un certo tipo di musica. Non m’interessa sentirmi diverso, sentirmi un outsider. Se quello che faccio non mi piacesse non funzionerebbe.
Ora io mi sto avvicinando ai quaranta e non sono così esperto di quello che fanno i diciottenni oggi, ma quando ho iniziato a suonare con i Criminal Jokers – e anche prima, con i miei amici, durante l’adolescenza – ci sentivamo più protagonisti della nostra vita ad ascoltare delle cose che non erano ai primi posti in classifica, a fare una musica differente, mentre adesso mi sembra tutto un po’ diverso.
Nonostante tutto il titolo del disco è La musica è finita, citando Ornella Vanoni (o Franco Califano, Nisa e Umberto Bindi, gli autori). È una sorta di manifesto, di dichiarazione. Ma di che musica parliamo? Che musica è finita?
È la musica di un momento mio. A un certo punto mi sono reso conto che andavo a raschiare degli argomenti che rischiavano di sfociare in un manierismo. Se a un certo punto riesci a fare una cosa e hai grandi palchi sulle spalle perché riesci a fare quella cosa lì cadi nella ripetizione: per come sono fatto io a un certo punto devo smettere tutto e cambiare. E posso cambiare tutto, ma la mia voce non la posso cambiare, quindi non può comunque sembrare un disco fatto da qualcun altro. Però io, per il percorso che ho fatto in questo disco, sento dei grossi cambiamenti. Non è la prima volta che faccio un disco che racconta di un nuovo inizio, ma in questo caso mi ci sento veramente. Ho finito il disco e non vedevo l’ora di tornare in studio. Non mi era mai successo.
Si sente che c’è una grande passione. In Per non pensarci più dici: «Fanculo a questa musica che cerca una ragione per un dolore in più / L’ho fatto troppe volte e non è servito a niente / Io cerco solo un modo per pensare a come non pensarci più». Non è la prima volta che affronti il tema della musica, anzi, sembra quasi che la musica per te sia un atto doloroso ma necessario. La musica è una “sofferenza buona”, dal punto di vista della scrittura?
Penso che che sia un atto necessario, come respirare. Come l’idea del respiro: qualcosa che entra e qualcosa che esce, che ovviamente passa da me. Quindi si tratta di fare i conti con se stessi, con la musica per me. È stato l’ultimo pezzo che ho scritto e avevo un disperato bisogno di far sì che la musica fosse leggera, che il respiro fosse leggero. Non so, poi, quanto il pezzo lo sia, ma di sicuro è stato faticosissimo arrivarci.