– di Giacomo Daneluzzo
foto di Irene Cotroneo –
Möly, nome d’arte di Carlotta Camilla Maria Mascheroni, è una giovane cantautrice originaria di Monza. Ha all’attivo i due album Requiem (2022) e Vivere a digiuno (2023), entrambi pubblicati con l’etichetta indipendente Petricore, a cui si aggiunge una serie di singoli, gli ultimi dei quali sono stati riuniti nel mini-EP Questa città, uscito lo scorso 17 gennaio insieme al singolo omonimo, di cui è stato realizzato anche un videoclip ufficiale.
Dopo averne parlato qualche mese fa, in occasione dell’uscita del precedente singolo Tancagioia, l’ho intervistata in vista del concerto-spettacolo che terrà alla Corte dei Miracoli di Milano mercoledì 29 gennaio. Ecco che cosa mi ha raccontato.
Partirei parlando di Questa città: mi sembra che segua un po’ la direzione artistica degli ultimi brani da Chitarra con Spaziocalmo in poi (quindi quelle con le stelline in copertina).
Esatto. Quelli con le stelline sono singoli che ricercano sonorità di questo indie pop/indie rock sognante.
“Sognante” è una parola molto calzante, che hai usato anche nella comunicazione intorno a questa fase. Che tipo di svolta c’è stata nella tua produzione artistica?
Secondo me periodo precedente è stato di sperimentazione: c’erano brani bedroom pop, brani più sull’elettronica, brani con influenze shoegaze molto più marcate. Dopo tre anni di sperimentazioni, rodando anche i pezzi in live, abbiamo trovato questa quadra, che sta funzionando molto bene e in cui mi sento molto a mio agio, cioè questo dream pop chitarroso, secondo me anche molto cinematografico, da film coming of age un po’ romanticoni.
Quindi c’è stato questo tentativo di trovare un sound caratteristico e di metterlo insieme a un’estetica riconoscibile, anche co questo fil rouge delle stelline: è stato un periodo molto figo, secondo me, e sono molto molto contenta di quello che stiamo facendo!
Quando dici “noi” parli di te e dei ragazzi di Petricore, giusto? Com’è nata questa collaborazione?
Sì, esatto. Inizialmente lavoravo con Teo [Matteo Brioschi, nda], il mio produttore, poi abbiamo iniziato a collaborare con Thomas [Thomas Calvi, nda], che in realtà abbiamo scoperto che conoscevamo già tutt’e due. E da quest’incontro è nato Petricore: il nucleo sono Teo e Thomas, che si occupano rispettivamente di produzione e di mix e master, ma io sono lì dal giorno zero e mi occupo di comunicazione e di logistica. Lavoriamo insieme con vari artisti e nella squadra ci sono anche un po’ di musicisti, che sono tutti molto bravi.
Il progetto Möly invece lo condivido prevalentemente con Teo.
E questo mini-EP di tre brani è il preludio a un progetto più ampio, come un album, oppure è la conclusione di questa serie?
È un’ottima domanda, perché è una cosa a cui abbiamo pensato molto. Stiamo cercando di far funzionare a livello narrativo e creativo quella che è la prassi della release su Spotify. A me piacciono da morire gli album e in particolare i concept album, che adoro, ma sulle piattaforme sono disincentivati. Quindi mi sono detta: «Se puoi fare una storia sensata e creare un mondo attraverso un album, perché non si può fare lo stesso attraverso i singoli?». Quindi abbiamo pensato di fare una serie di release in drop-down, che [su Spotify, nda] a tre brani diventano automaticamente un EP, e abbiamo deciso di sfruttare quest’automatismo per il nostro worldbuilding. Abbiamo appena chiuso la prima fase, fatta di canzoni un po’ più legate al mondo dell’indie, che descrivono i personaggi di una città, e nella prossima release avremo sonorità ed estetica leggermente diverse. Le stelline però rimarranno sempre, ma cambieranno le carte in tavole, sarà un nuovo capitolo.
Questa città è una canzone che parla della mia città, Milano, usando un tono dolceamaro, facendo emergere emozioni contrastanti. Tu però non sei di Milano, giusto?
No, infatti, io sono di Monza. Sono molto legata alla Brianza però, anche artisticamente, perché facciamo musica a Montevecchia [in provincia di Lecco, nda], quindi questi sono i miei mondi. E poi c’è Milano.
E Milano è una strana cifra. È il posto in cui vai se devi fare qualcosa, ma è piena di piccole parentesi. Ci vai convinta di fare qualcosa e ti ritrovi a perdere tantissimo tempo: vedi sempre le stesse persone e fai sempre le stesse scene, interpretando gli stessi ruoli. E io sono una a cui piace andare dritto al punto, anche parlando con le persone, quindi tutta questa postura di Milano mi mette in difficoltà, non riesco a navigarla. La mia idea di Milano è un mix tra un posto in cui vorrei realizzare delle cose belle e tutto quello che si porta dietro. È una città fighissima. Sarebbe ancora meglio se fosse un po’ più genuina.
Poi io la prendo a piccole dosi; ma chi vive in una città così veloce si trova ad avere a che fare con moltissime persone, a conoscere tante persone nuove, e forse diventa difficile avere interazioni genuine con tutti. Suppongo che questa postura sia una strategia di sopravvivenza, ma io non ho nessuna intenzione di farlo. Questo è il concetto alla base di Questa città.
Tancagioia invece è ambientata molto lontano da Milano.
Tanca Gioia, cioè il suo vero nome, è un posto in Sardegna in cui vado fin da quando ero piccola. È il mio posto.
È una frazione di Carloforte, l’unica città dell’isola di San Pietro.
E tu come lo conosci?
Quando i miei nonni si sono sposati sono andati in vacanza con dei loro amici e hanno scoperto questo posto e ne sono rimasti incantati. E hanno deciso di costruire una casa nel punto più isolato e nascosto, in mezzo al nulla. La strada per arrivarci è folle.
I miei nonni stanno tutto l’anno in Brianza in cima a una collina e quando vanno in vacanza vanno in questo posto sperduto, sempre in cima a una collina.
Sembra un posto molto interessante.
È bellissimo. Ci abitano pochissime persone e ci sono tipo tre cose nel paese, un’unica pizzeria… E non va internet. Va in paese e su alcune spiagge, ma per il resto non c’è proprio rete. A casa nostra l’abbiamo messa un paio d’anni fa, ma fino a quel momento lì non c’era proprio nessun contatto col mondo. Per dire, lì non arriva neanche l’acqua, c’è solo in paese e per averla bisogna portarla o farsela portare. E ci sono tutti dei personaggi buffi, su cui potrei scrivere un album. È anche un’isola linguistica: il dialetto tabarchino, che si parla lì, viene dal ligure ed è nato dai liguri che sono stati catturati dai pirati dell’impero bizantino e hanno vissuto in Nordafrica per un sacco di tempo.
E poi si vedono benissimo le stelle, si vede anche la Via Lattea.
A tal proposito, fin dall’inizio la tua attività musicale ha evocato un particolare immaginario notturno: la luna e le stelle sono riferimenti estetici ricorrenti all’interno del tuo progetto artistico. Che cosa rappresenta la notte?
Ero una bimba molto pensierosa e non ho mai dormito granché, di notte. La notte era il momento della giornata in cui pensavo di più: mi facevo le mie storie, riflettevo e mi trovavo con tutti i miei pensieri.
Da sempre collego il mio mondo interiore alla notte, il mio lato più introspettivo alla presenza della luna fuori dalla finestra o al camminare da sola guardando le stelle.
Raccontando le mie cose cerco di essere il più possibile autentica. La notte è il mio momento di riflessione solitaria, ma anche essere con qualcuno di notte vuol dire superare quella soglia della postura, di cui parlavamo anche prima, e condividere i propri pensieri e la propria emotività in modo più reale.
Nelle mie canzoni voglio dire veramente quello che penso e provo a farlo in un modo che possa lasciare qualcosa a chi le ascolta.
Oltre alla musica, hai avuto anche delle esperienze teatrali e settimana prossima terrai un concerto-spettacolo alla Corte dei Miracoli di Milano. Che rapporto hai col teatro e con la recitazione?
Il teatro è sempre stata una parte molto importante della mia vita. Ho fatto corsi di teatro fin da quando ero piccola. Creare storie con altre persone è sempre stata una delle mie cose preferite e mi sembra di farlo anche facendo musica. Più dei film amo le trasposizioni cinematografiche di spettacoli teatrali e i musical.
Andare a vedere uno spettacolo è una delle cose più coinvolgenti che esistano. Non riesco ad andare a teatro senza pensare che vorrei farlo io.
Nietzsche parla del teatro come forma d’arte suprema. Che cosa ne pensi?
Sono assolutamente d’accordo! Parli con una bimba di Nietzsche. Quando abbiamo iniziato a sviluppare Möly come progetto ho pensato moltissimo al concetto di catarsi teatrale. Forse può anche sembrare pretenzioso, perché alla fine vengo lì e faccio qualche canzone, però ci credo molto.
Per concludere, da quest’intervista mi sembra di capire che per il futuro ci dobbiamo aspettare un concept album in dialetto tabarchino su Carloforte e i suoi abitanti.
Sì, cazzo, sarebbe bellissimo!