– di Michela Moramarco –
I Modena City Ramblers sono una band nota per l’impegno sociale che si riversa nella scelta delle sonorità e dei testi: spesso protagonista di numerosi festival nel territorio italiano e internazionale, ha pubblicato da poco l’album dal titolo “Altomare”. Con la relativa marca di fabbrica Combat folk, spicca per l’intento di creare con il pubblico uno spirito di condivisione. Ne abbiamo parlato con il componente Francesco “Fry” Moneti.
Qual è secondo voi il ruolo del Combat folk in un mercato discografico in cui il pop radiofonico dilaga?
Il Combat folk si muove in una nicchia di mercato infinitesimale: dopo aver vissuto l’apice intorno alla metà degli anni Novanta, ha retto bene fino al 2010 circa, proponendo sempre cose nuove. Ad oggi sono rimaste poche band Combat folk, anche se ce ne sono potenzialmente altre che però fanno fatica a suonare in giro.
Il vostro percorso artistico è noto anche per la continua e impegnata partecipazione a svariati festival: secondo voi, qual è il ruolo dei piccoli festival nella valorizzazione dei territori e delle tradizioni?
Il ruolo dei piccoli e medi festival è determinante, fondamentale. Ci sono svariati piccoli centri e periferie, i quali devono molto ai festival. Mi viene da pensare ad Arezzo Wave, festival che valorizza la città che altrimenti sarebbe sempre un po’ all’ombra di Firenze. Io stesso ho conosciuto molti luoghi grazie ai numerosi festival in cui ho suonato.
Il vostro nuovo album “Altomare” sceglie il mare come tematica portante, che è anche un topos letterario, un tema insomma di grande rilevanza tradizionale. Come mai questa scelta?
Si tratta del primo disco di inediti dopo sei anni. Abbiamo scelto di pubblicare questo disco perché ci piace raccontare quello che vediamo ed essere stimolati dalle storie che incrociamo. Dopo una sorta di blackout discografico da cui siamo emersi dopo il lockdown, una volta messi a lavoro, ci siamo accorti che il minimo comune denominatore delle nostre storie era il mare. Il mar Mediterraneo è stato crocevia di incontri di culture adesso sembra più un teatro di morte e di disperazione. Il titolo e il disco stessi sono molto centrati su questo discorso.
Qual è il segreto, la formula per cui una band resiste nei decenni senza perdere la linfa e l’essenza musicale?
Credo che il segreto sia la coerenza. Ma è anche questione di fiducia con il pubblico, con il quale si dovrebbe sempre creare un senso di comunità, o magari di appartenenza identitaria ad un progetto. Poi c’è anche il discorso qualitativo, proponendo dischi che non scadano possibilmente nel tempo si può cercare di mantenere l’asticella della musica alta. Infine, c’è l’aspetto della performance live, per cui conta anche che al pubblico venga dato quello che si aspetta.
Qual è la difficoltà che si riscontra negli arrangiamenti dei brani?
In realtà noi possiamo dire di essere abbastanza onnivori musicalmente: ci sono dei suoni che spingono molto verso il sud Italia, ma anche in Africa. Abbiamo partecipato al Womad Festival in sud africa molto grande dove siamo stati influenzati da varie contaminazioni sonore. Ma nella nostra musica c’è sempre un po’ di Irlanda.
C’è un aneddoto o una circostanza particolare nel vostro percorso musicale, degna di nota?
Tutti i festival del Primo Maggio: è una circostanza in cui si ha a che fare con tutto il giro musicale italiano e non. Ma per citare un’altra circostanza ti dico che abbiamo partecipato all’edizione cilena del Womad Festival, dove abbiamo suonato in una location di fronte al cimitero dove è sepolto Salvator Allende. Abbiamo suonato dei brani tradizionali del Sud America. Lì è stato un momento suggestivo, sicuramente degno di nota.