– di Giacomo Daneluzzo –
È uscito lo scorso 17 settembre per l’etichetta milanese Maciste Dischi “Povero cuore”, il nuovo singolo di MOBRICI, progetto solista di Matteo Mobrici, già noto in precedenza per essere la voce e il frontman dei Canova, popolare gruppo indie pop cantautorale scioltosi l’anno scorso. “Povero cuore” è un brano diverso dai precedenti, che vede la partecipazione di Dario Brunori, in arte Brunori Sas, insieme a MOBRICI sia dal punto di vista dell’interpretazione vocale che della scrittura, dando alla canzone un tono in linea con la scrittura di Matteo Mobrici ma in cui spicca anche uno sguardo molto ottimista e positivo, che appartiene di più alla penna di Brunori Sas.
L’ho intervistato per parlare di lui, della sua storia artistica e umana, dai Canova al progetto solista, e del nuovo singolo, di cui volevo approfondire il vero significato e la collaborazione con un artista del calibro di Brunori Sas.
Ciao Matteo! Mi chiamo Giacomo, non ci siamo mai conosciuti ma ascolto le tue canzoni dal 2016, quando avevo sedici anni ed è uscito il singolo “Vita sociale”. Sono cresciuto (anche) con le tue canzoni ed è un piacere essere qui a intervistarti.
Sono contento! Allora sono servite a qualcosa, queste canzoni.
MOBRICI è il tuo progetto solista: quali sono le differenze che fino ad ora hai percepito rispetto alla “dimensione band”?
Probabilmente le scoprirò più avanti. Per ora ho semplicemente scritto delle canzoni, come facevo prima, poi le ho registrate e le ho pubblicate. Per adesso non c’è una grande differenza, sicuramente però per quanto riguarda i concerti sarà un altro tipo di esperienza. Ci sarà una mancanza anche, per così dire, sentimentale, da un punto di vista umano, del condividere tante esperienze insieme. Non è il caso di chiedersi se sia meglio o peggio, ma di sicuro essere in una squadra è confortevole, per vari aspetti; adesso non ho nessun tipo di difesa. Non so ancora dirlo, non ho ancora toccato con mano la differenza: in quest’ultimo anno l’approccio è stato totalmente digitale, non c’è un contatto con l’esterno e queste cose non si capiscono ancora bene.
Di che cosa parla, per te, “Povero cuore”? «Dicono che eri meglio prima ma tu non sai neanche com’eri prima» è una frase riferita al mondo dello spettacolo, della tendenza a idealizzare il “prima” del percorso di un artista, che spesso operano pubblico e critica?
Mi aspettavo che sarebbe arrivata questa domanda. Potrebbe sembrare un appiglio a questo tipo di discorsi, invece è totalmente da un punto di vista umano, anche perché non si sa quanto sia questo “prima”, ma nelle nostre vite c’è sempre un “prima” e un “dopo” e ci sono molti casi in cui cambiamo e o miglioriamo o peggioriamo – non si può sapere, questo – e quindi c’è sempre qualcuno che preferisce la “versione precedente” di te. Non ha nessun collegamento con la carriera; però mi piace che ci sia questa lettura, perché quando Dario [Brunori Sas, ndr] ha scritto la sua strofa, in cui dà quel tipo di coraggio, di spinta, dicendo: «Vattene al mare, pensa a ballare, pensa a suonare e scrivi canzone d’amore», l’ha messa anche su quel lato lì e mi è piaciuto subito, infatti non l’abbiamo cambiato di una virgola.
È una canzone che, come protagonista, ha questo cuore. Io parlo di quanto sta male, perché è stato abbandonato, ha subito delle violenze… Però poi dico anche che dev’essere mostrato, perché se lo merita, in un certo senso. Questa conversazione con Dario è stata una grande aggiunta al brano. Inizialmente la canzone era “solo” così, ma mi mancava una parte che potesse dare un nuovo ottimismo, un punto di vista diverso. Ho pensato subito a Dario, ero sicuro che avrebbe fatto bene, e infatti così è stato; non avevo nessun dubbio.
Ma infatti guarda, io avevo pensato a quest’interpretazione che hai dato a quella frase e mi sono detto: «Anche se si dovesse capire così va bene». Perché comunque il sentimento alla base non cambia, è sempre un confronto con il passato. Poi sai, in questo periodo secondo me dobbiamo proprio averci a che fare, col nostro passato, proprio a livello storico, rispetto a quello che era due o tre anni fa e rispetto a quello che sarà. Quindi sarà un momento di cambiamento per tutti, a prescindere da tutto. Serve un po’ di pazienza e imparare da Brunori a essere ottimisti.
Nella canzone infatti si sente molto questa nota ottimista, magari anche rispetto a quello che è il tono più diffuso nei testi di questo periodo.
Molto. Infatti sono davvero contento: nella vita sono anche ottimista, però nelle canzoni non riesco mai a esserlo, anzi, vengono fuori sempre tematiche malinconiche e tristi. Ma l’unione fa la forza ed è venuto fuori un linguaggio che mi ha permesso di esprimere qualcosa che forse non sarei riuscito a esprimere altrimenti. Nella vita sono molto ottimista (e anche molto simpatico!) ma poi scrivo queste orrende canzoni…
Secondo me sono anche delle corde particolari e profonde che vengono mosse quando si scrive, proprio dall’atto di scrivere.
Sicuro, sicuro. Tanto resta un mistero, non esiste un manuale per comprendere il motivo per cui nascono.
Ricordo un’intervista di Elliott Smith per il Guardian in cui disse: «Non mi sento più triste di tutti quelli che conosco. Alcune volte sono felice, alcune volte no», come a dire che, anche se le sue canzoni sono cupe e malinconiche in realtà lui non lo è particolarmente, rispetto agli altri, ma semplicemente queste emozioni lo smuovevano di più verso l’atto creativo.
Sì, è così. Conosco Elliott Smith ed è così, aveva ragione.
Sei di Legnano; io ho passato tutta la mia infanzia e parte della mia adolescenza a Gaggiano, un’altra cittadina, ancora più piccola, nell’hinterland milanese, quindi ho abbastanza presente com’è la vita in provincia. In che modo la provincia ha influenzato il tuo percorso, artistico e non?
Penso che l’abbia influenzato proprio tantissimo. Io sono uno di quelli che sono scappati, dalla provincia. Poi penso che la provincia italiana si assomigli un po’ tutta, alla fine, che sia Legnano o un altro posto. Ora vivo a Milano da un po’ e sono andato via perché non mi ritrovavo, mi dava una sensazione di “via di mezzo”: potrebbe essere bello vivere in un paesino o nella grande metropoli, ma la via di mezzo di Legnano non riusciva a darmi delle risposte. Ha influito totalmente su questo “essere sfigati”, di base, perché è questo il fatto, sentirsi un po’ così, avere quella voglia, in un certo senso, di riscatto. Stare in una provincia vuol dire anche accontentarsi di avere poco. A Legnano c’è tutto, ma c’è poco di tutto: un negozio di musica, una sala prove, ma anche un liceo… Dipende anche da come sei tu, di carattere; io sono uno che dopo un po’ ha bisogno di cambiare, quindi penso che la provincia abbia influito su tante cose. Però se fossi nato in una grande metropoli magari sarebbe stato lo stesso, a questo non saprei rispondere. Mi ricordo bene la gavetta che ho fatto: quando suonavo in questi posti avere una data a Milano era già una festa. C’è tutto un percorso che fa in modo che da fuori ne esca il quadro di una bella storia.
Forse per apprezzare il fatto di trasferirsi a Milano e ampliare il bacino dei propri progetti può anche essere utile venire dalla provincia, forse ti rendi più conto dello stacco.
Sì, poi guarda, io ho vissuto a Legnano per tanto tempo però ho frequentato Milano per tanti anni, tra ragazze, amici, concerti… Ero a Milano tutti i giorni. Però dormirci e svegliarti in un posto diverso ogni giorno cambia tanto. Poi va be’, sono stato chiuso in casa un anno e mezzo per la pandemia, ma sorvoliamo. È uno dei più grandi traumi della mia vita.
In linea con il progetto dei Canova, penso – come molti altri – che il tuo progetto solista rappresenti una delle “anime” per così dire dell’indie/itpop in Italia, quella più cantautorale, più “a metà” tra il cantautorato classico e quello più contemporaneo. Ti ritrovi in quest’interpretazione?
Guarda, se ne parliamo da un punto di vista storico sì, ci può stare, senz’altro. Ci sono stati due-tre anni che hanno cambiato tutto. Nella storia della musica questi fenomeni durano pochissimo e infatti così è stato; ma è stata una bella scossa che ha cambiato una generazione di autori di canzoni, specialmente, che hanno provato a introdurre un linguaggio nuovo, mescolando un attimo le carte. Se ci pensi era un movimento “adulto”, non c’erano diciottenni che scrivevano i brani, eravamo tutti dei ragazzotti e credo che ci fosse una certa coscienza nel farlo. Sono stati due-tre anni molto belli, dove sono uscite tante cose belle. Poi non so dirti se questa guerra contro il grande mostro dell’industria musicale sia stata vinta o persa, dipende dai punti di vista. Su alcune cose è stata persa, su altre però è stata vinta, perché insomma, ci siamo riusciti, a imporci. Prima passare in una radio nazionale con quella roba lì era impensabile. Poi certo, le cose si potevano fare meglio, forse. O anche peggio. Però credo che sia andata bene: adesso c’è spazio per altre cose e tutto è molto più veloce. Ora ci sono moltissimi ragazzi, anche molto giovani, che escono con robe belle. Bisogna continuare a vivere la musica in un modo molto naturale, senza le ansie e le pressioni dei risultati, che fanno abbastanza male a tutto, essere sinceri. E se c’è un riscontro positivo del pubblico – perché alla fine è il pubblico che decide – siamo tutti contenti. Io la vivo così.
Tra questi ragazzi di cui parli ce ne sono alcuni che ti piacciono, che trovi interessanti?
Bisogna capire a chi ci riferiamo: per esempio c’è Fulminacci, che è molto giovane, anche non facendo un genere totalmente nuovo. Poi mi piace BLANCO, mi piace Madame. Ci sono delle situazioni importanti per il futuro, secondo me. Bisogna farsi trasportare dalle cose e andare ai concerti e non vedo l’ora di tornarci!
Allora ci vediamo a qualche live! Grazie mille e buona fortuna con il tuo progetto!
Promesso. A presto!