– di Assunta Urbano –
Nel corso degli anni, il Mi Ami Festival ha rappresentato – e non ha mai smesso di rappresentare – il più importante punto di riferimento per la musica indipendente in Italia. È probabilmente proprio al festival milanese che è nato il fenomeno indie, in particolare con le esibizioni de I Cani alla Collinetta oppure la finta rivelazione dell’identità di Liberato, nel 2017.
I due ideatori e direttori Carlo Pastore e Stefano Bottura, accompagnati dai colleghi di Rockit.it, hanno saputo come tenere sulle spine gli ascoltatori. Neppure in questa sedicesima edizione mancheranno le sorprese.
Di nuovo in presenza, l’evento accoglierà nella città lombarda oltre novanta artisti provenienti da tutta Italia e non solo. Per la prima volta, compaiono in line up anche musicisti internazionali, come L’Impératrice e YĪN YĪN.
Tra i nostrani ci saranno Iosonouncane, La Rappresentante di Lista, Tutti Fenomeni, Post Nebbia, Marco Castello e un inedito Alan Sorrenti.
La mission del Mi Ami, però, resta invariata: far incontrare, connettere e sognare le persone. Per scoprire qualche dettaglio in più, abbiamo intervistato Carlotta Fiandaca, nella produzione della manifestazione.
Dopo lo stop a causa della pandemia, torna il Mi Ami Festival per la sua sedicesima edizione. Nel corso degli anni, l’evento è cambiato, così come è diverso il suo pubblico. In che modo si costruisce una line up per lo show?
Sono sedici edizioni, ma sempre nuove emozioni. È stata più dura del previsto ricominciare, ma è comunque meraviglioso. Abbiamo la fortuna di avere un bravissimo direttore artistico, Carlo Pastore, che cura la line up. Si costruisce con un anno di ascolto di musica. Abbiamo tanti palchi e diversi “livelli di esperienza”. Ci sono artisti al loro esordio e altri con lunghissime carriere. Si pensa alle differenti tipologie di pubblico. Il Mi Ami è sempre stato aperto a ogni genere musicale, non tagliamo fuori nessuno. Ci piace inserire gruppi che ci piacciono e si sono distinti nell’anno trascorso. Di certo, sarebbe stata una scaletta diversa se la sedicesima edizione si fosse tenuta nel 2020.
Un calendario ricco, ma soprattutto vario, che va da Alan Sorrenti a Meg, fino ai Nu Genea e Mobrici. Per la prima volta anche band straniere sono state inserite in scaletta. Cosa vi ha portato a rendere il festival internazionale?
È stato un esperimento. La domenica è sempre stata una giornata particolare e abbiamo pensato di inserire una “ciliegina sulla torta”, ospitando realtà straniere. Funzionavano nell’etica del festival e pensiamo che al pubblico potranno piacere. Magari l’anno prossimo implementeremo ancora di più. È sempre Musica Importante a Milano.
Ecco, parliamo proprio di questo. C’è stato un cambiamento netto nel festival, dettato anche da ciò che è accaduto nel panorama musicale negli ultimi anni. Da “Musica Indipendente a Milano” il Mi Ami è diventato “Musica Importante a Milano”. Da principali protagonisti dei successi musicali degli ultimi anni in Italia e del mondo cosiddetto “indie”, qual è il motivo di questa evoluzione?
Quelli che venivano proposti come “indie” ormai sono diventati mainstream. Non è più una nicchia, forse non lo è mai stata davvero. Anche nelle etichette, come la Universal, molti di loro sono arrivati. Si è trasformato il senso di indipendenza, quegli artisti, per l’appunto, sono adesso “importanti”.
Tante saranno le storie legate al Mi Ami, ma dovendone scegliere soltanto uno, qual è stato il concerto più simbolico di tutte le edizioni?
Ognuno di noi avrà sicuramente il suo live. Posso provare a sintetizzare l’opinione di tutti e ti dico che uno dei più iconici è stato quello di Patty Pravo, nel 2013. È una grandissima rocker senza tempo. Poi, dimostra che gli artisti di ogni genere vogliono far parte di questa realtà. È personale come scelta. Abbiamo visto nel tempo i Prozac+ e pensare che Elisabetta Imelio non sia più tra noi mi fa venire il magone. Ci sono stati Luca Carboni, Noyz Narcos, l’esordio di Massimo Pericolo.
Il festival è stato in grado di intercettare le band e i gusti musicali prima che questi diventassero parte di un immaginario collettivo. Cosa succederà, secondo te, nei prossimi anni dal lato musicale in Italia?
Possiamo prevedere un ritorno alle band, quelle numerose. Forse anche grazie ai Måneskin, c’è stata una riscoperta degli strumenti, dopo anni di produzioni più elettroniche. Pensandoci, nella nostra line up, tanti rapper e trapper hanno il loro gruppo sul palco. La musica live intesa con il vecchio significato. Dalla backline vedo che sono tanti gli elementi di ogni progetto.
È interessante che sia successo in un momento di massima evoluzione digitale.
Esatto, poi la gente è tornata a comprare i vinili. Ha bisogno di nuovo di praticità.
Oggi, nel 2022, il Mi Ami continua a essere uno degli eventi principali dell’estate italiana, anzi quasi di fine primavera. Cosa lo rende così speciale?
È stato il primo ad avere una missione del genere in Italia. Il primo anno è stato il 2005 e io sono arrivata a lavorarci nel 2007. Un festival come funziona anche in Europa. Ce n’erano tanti di successo anche in Italia nel passato, come l’Heineken Jammin Festival, il Rototom [spostato in Spagna dal 2010, ndr]. Si sentiva la necessità di non perdere quell’idea di aggregazione culturale, che è alla base di questo tipo di manifestazioni.
Ho iniziato a lavorare al Mi Ami e tanti palchi e ore di musica li avevo visti solo in Inghilterra. Adesso ce ne sono molti di più, ma il nostro si conferma qualcosa di grande. Ha un grande valore per chi lo fa, chi ci suona e chi ci lavora. Mi sto commuovendo nel dirti queste cose! È la mia prima intervista ed è la prima volta che mi ritrovo a parlarne. Mi sono emozionata. Secondo me, il suo successo è proprio questo: tutte le persone che nei tre giorni popolano il festival.
Ma soprattutto: che significa per te il Mi Ami?
Ogni anno, imparo cose nuove e in ciascuna edizione conosco una persona, che poi diventa mia amica. È un’esperienza formativa, una vera e propria palestra. I lavori di passione sono tutti così. Ci sono talmente tante figure diverse intorno, dai tecnici, alla barista, ai cuochi, agli artisti. Incontri nuovi volti, fa bene. Quando finisce tutto, comunque sia andata, ti senti grande. Tre giorni che ti porti dentro tutto l’anno.