– Di Michela Moramarco –
Il MEI – Meeting delle Etichette Indipendenti giunge alla ventiseiesima edizione. Il valore che ha oggi il poter parlare di realtà discografiche indipendenti; la necessità di una manifestazione che ne renda giustizia; il cambiamento ciclico dell’industria musicale di un paese al mutare della società stessa: questi sono alcuni dei punti affrontati di seguito, nell’intervista a Giordano Sangiorgi, ideatore e organizzatore del MEI.
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Il MEI è un punto di riferimento per la scena musicale italiana indipendente. Ma che significato ha parlare di musica indipendente oggi, nel 2021?
Il significato è quello di continuare a fare capire che di fronte a un mondo globalizzato dove, in tutti i settori, compreso la musica, “comanderanno” solo pochi marchi multinazionali monopolisti, esistono tutte le crew delle etichette indipendenti che continuano a offrire la loro creatività. Non solo: le realtà indipendenti continuano anche a fornire innovazione alla nuova musica del nostro paese. Senza di loro – e solo con le major- non avremmo tutta questa ricchezza di proposta musicale, che quindi proprio per questo merita di essere sostenuta ancora di più.
Quando e come si è verificato il passaggio dalla musica “alternativa” alla musica “indipendente”?
Diciamo che le due realtà ci sono sempre state soprattutto in America e in Inghilterra. In Italia per un lungo periodo chi aveva un messaggio politico e musicale scomodo, dai messaggi sociali alternativi alla musica piu’ dura come il punk, per dire, alternativo al sistema, si è autoprodotto per un lungo periodo. Quindi la “produzione indipendente” è stata per lungo tempo sinonimo di “alternativa”.
Poi a metà degli anni Novanta , quando è nato il MEI, sono sbocciate mille etichette discografiche indipendenti, come modello produttivo, che avevano però nella loro mission musicale non più solo messaggi politici alternativi al sistema di potere o alternativi al mainstream musicale, ma semplicemente visto l’abbassamento dei costi di produzione avevano solo la necessità e magari anche l’urgenza di prodursi da soli. Tutto questo pur facendo anche “musica leggera” o, come si dice oggi, “leggerissima”.
Ad oggi, ha senso parlare di voglia di indipendenza?
Ancora di più oggi di ieri: in un mercato globale in cui si rischia che il mondo sia in mano a pochissimi marchi sul mercato e a pochissime potenze politiche, l’indipendenza produttiva è il fuoco dell’innovazione e della sperimentazione. Ma anche dell’andare fuori dalle regole cercando di trovare una strada identitaria per un percorso culturale e musicale autonomo. Certamente è molto più dura di un tempo dal punto di vista delle risorse economiche visto che siamo oramai in una sorta di neocapitalismo medioevale che sta uccidendo tutta la classe media. Tenere vivo il proprio mercato rionale della musica significa tenere vivi i propri prodotti dell’orto, la bottega sotto casa del pane, il bar che ti fa il tuo caffè e tutte quelle cose che sanno di km zero e che vanno mantenute e sviluppate.
Considerando i legami tra etichette indipendenti ed etichette majors, in che termini si può parlare di discografia indipendente?
Quando il legame è virtuoso ed ognuno fa il suo mestiere è un beneficio per tutti. Quando il legame è farlocco è un danno per tutti.
Come è possibile per un artista emergente trovare visibilità?
Oltre ai talent e ai canali streaming, dove realmente solo uno su mille ce la fa (e forse anche meno: pensiamo alle migliaia di audition ogni anno di X Factor, e che in dodici anni un solo pugno di artisti è emerso davvero. Per dirne una) è dai canali dei live – che con i post Covid magari si modificheranno- che sono usciti i nuovi Big di oggi, prima talenti emergenti. La speranza è quindi che possano riprendere i live e possa ripartire quanto prima a sedie piene il circuito dei club dei live e dei festival e dei contest e che possa ritrovare un’economia sostenibile anche con il sostegno dei fondi del Ministero per la Cultura e con il supporto dei player dei diritti, i primi interessati a fare ripartire tutto il settore.
Che ruolo giocano i mezzi di comunicazione di massa come i social network nel mondo della discografia indipendente? Gli anni pandemici ne hanno incrementato l’importanza?
Si, assolutamente. Per questo servono i live al più presto: per non farsi schiacciare dal grande ruolo di marketing musicale, che sovrasta enormemente quello della critica, che esercitano i social.
E se la musica pop fosse ormai dettata dalla noia e da una crescente sfiducia verso la discografia stessa?
Credo siano cicli. In questa fase provengo da una serie di contest giovanili under 25 della più diversa natura dove è tornata di nuovo la voglia di fare le band che si ritrovano con la chitarra rock e fanno pezzi originali e inediti – con una spruzzata di cover- come con il boom degli Anni Novanta, che poi ebbe i primi prodromi coi complessi del beat degli anni Sessanta.
Domanda necessaria: quanto è stato difficile organizzare la ventiseiesima edizione del MEI?
Non è difficile: è difficilissimo. E mi fermo qui. E non è ancora finita.