Lascio andare l’istinto e, d’istinto parlando, l’incipit con cui si dipana il primo brano “Plastico”, sembra riportarmi alle atmosfere sospese di “Atmosphere” dei Joy Division se non fossero alcuni dettagli dei suoni di batteria, troppo asciutti, diversamente riverberati, più plastici e decisamente più coerenti con un rock urbano come questo che con una distopia inglese che avrebbe avuto solo il fascino della nostalgia. E l’inciso poi, non tanto nella melodia di voce quanto più nei tessuti degli arrangiamenti sembrano riportarmi alla protesta di anni fa quando dalla provincia arrivava il rock più sovversivo e meno accondiscendente. E non mi si condanni se in molti punto dell’ascolto di questo nuovo disco di Masua, la mente mi vola alle tabelle rase dei CSI. Tornando a bomba: se la strofa avesse pettinato meno raffinatezze e se le distorsioni fossero state prodotte con meno attenzione (che tutto deve suonare come un complimenti), avrei davvero ripensato a quel tempo. Ma giustamente siamo al 2022. E Masua non è certo un artista di ieri. La coerenza prima di tutto. E subito capisco che c’è energia buona. “Fantasmi” quasi sa di punk: energia buona dicevamo. Compreso questa voce tediosa, quasi megafonica… ritrovo la cassa “metal” che nell’inciso non copre (errore medievale che scopro spesso nei dischi nuovi) e invece qui sa come dialogare a tempo con questo tessuto di synth o di chitarre lunghe che urlano prima di lanciarci in una meritata sospensione. E ritornando alle dicotomie di cui all’inizio, l’arpeggio iniziale di “Il tuo cuore batte lento” porta con se il grigio di palazzi sub-urbani, porta con se il fumo e la rabbia… per quanto l’amore impera dentro forme di pop nelle melodie, il muro dei suoni (della famiglia che ormai conosciamo), traduce tutto questo in simbiosi con un pattern di caos ordinato e salvifico per chi ama i dischi sporchi di un certo tipo di rock.
Eccovi il singolo “Giorni Uguali” che però quasi esce dal ricamo incontrato sino ad ora, lascia più spazio alla narrazione tutta italiana, al pop che per quanto vestito dai suoni di prima e di dopo, ha davvero un fare distante dal resto del disco. E ci sta anche respirare un poco, ci sta anche allentare la presa dalla corsa ostinata. Prosegue il viaggio nel futuro apocalittico: bello l’inciso della title track, “Occhi chiusi”, come sono belle le sue “coralità” che poi spesso ritroviamo a spasso dentro tutto il disco, modo spazioso ed etereo che molto richiama un certo modo alla Marlene Kuntz di un dato periodo s’intenda… come molto deve anche al post-rock americano della passata generazione. E il riff iniziale di “Sono qui”? Che citazione è? Non la ricordo… altro brano che si accoda alla dolcissima “quiete” (si fa per dire), altro momento che prende derive un filo distanti dal tutto… imperiosa però poi questa “Chiedi alla polvere” che rinfresca le origini di questo lavoro, imperiosi anche gli atteggiamenti new wave, belle linee liquide di pad protagonisti a condurre la melodia. E poi inaspettati e fuori cliché le soluzioni messe in campo per la prima parte di “Confini”, la chiusa del disco, forse il momento più avant-rock e glam di tutto l’ascolto.
Certamente abbiamo fatto una fotografia razionata, centellinata e decisamente istintiva di alcuni piccoli particolari di ciascun brano di questo lavoro firmato da Masua, al secolo Claudio Passiu. “Occhi chiusi” è un disco che dal rock prende ogni trancio di ispirazione possibile per lanciarsi in una scrittura personale come questa. Un dialogo di arrangiamenti decisamente ampio e privo di ridondanze, tra soluzioni classiche e un mestiere attento di cose uniche. Forse avremmo voluto liriche meno “pop” e meno lineari, forse è l’italiano che in questo ci distrae, forse un simile rock che richiama alla mente distopie post-atomiche avrebbe trovato un maggior equilibrio con testi inglesi o più allegorici e visionari… e anche qui il coraggio di osare in un incontro tra abitudini e libertà istintive va premiato. E sottolineiamo anche come i suoni di batteria escono fuori dalle solite soluzioni messe in campo per un rock così urbano: e il risultato non ci sembra affatto male. Forse l’istinto delle abitudini, concetto che torna sempre, durerà qualche fatica in più nel rivoluzionare le sue sante conformità del caso. “Occhi chiusi” poi suonerebbe davvero con un fascino ancora più spinto se fosse racchiuso dentro i solchi di un vinile.