Ho ritrovato Maria Antonietta frugando nel cassetto dei ricordi di quegli artisti che negli ultimi due anni mi avevano positivamente colpito: un qualcosa a metà tra un esercizio di stile ed una sana nostalgia. Pensandola all’epoca del primo omonimo Maria Antonietta (2012), fa un po’ specie ritrovarla ora senza la dirompenza di brani quali “Quanto eri bello” o la profondità di una “Saliva”: se il primo singolo “Sassi” mi aveva fatto quasi mettere le mani nei capelli, un ascolto approfondito del nuovo lavoro della musicista pesarese ha fatto sì che mi ricredessi (e non poco) sulle impressioni iniziali che ero andato formandomi.
Sassi non ruba l’orecchio, così come non era per il suo predecessore, anzi contribuisce con esso ad impedire all’artista in questione l’ennesimo salto definitivo: per ora ancora nel buio.
Anche questo disco suona promettente, incendiario per poi finire pompiere: e la noia incolore di un prodotto praticamente monocorde è salvata solo in corner dal trittico (tra l’altro posto in fondo) costituito da “Animali”, “Diavoli” e “Molto presto”, che per immensità e credibilità non sembrano neanche scritte dalla stessa persona, anzi.
La fortuna di Maria Antonietta continua ad essere quella di avere una timbrica fuori dal comune che, per quanto scimmiotti il meglio ed il peggio del rock e della new wave italiana ’80-’90 al femminile, le cuce addosso un vestito del tutto personale: dai sussurri agli urli disperati, la sua sincerità vocale sembra ergersi al di sopra delle sue stesse canzoni.
Il tutto si ridimensiona (e di brutto) provando ad immaginare questi stessi pezzi alla prova di un qualsiasi o di una qualsiasi altra cantante, pure di passaggio: perderebbero incredibilmente di consistenza, perché forse non ne hanno poi così tanta.
Un album mediocre, che tende più al 5.5 che al 6 ma che, non foss’altro per la cassa di risonanza del personaggio, merita di essere ascoltato almeno una volta: sperando che a voi vada meglio che a me, che sto ancora attingendo le forze perse da un lungo caffè americano.
Malino, per non dire male.
Valerio Cesari