Nel 2020 Marco Parente si è fatto risentire dopo sette anni di silenzio con ben tre uscite.
Life è “un disco più ortodosso nella forma”, ma frutto dello stesso spirito compositivo.
Il 23 ottobre Marco Parente è tornato con Life (Blackcandy Produzioni), full lenght di dieci brani che segna il suo ritorno a sette anni da Suite love. Il nuovo disco, autenticamente ispirato sia nei testi che nei suoni, forma una sorta di “trilogia subliminale” con altri due progetti paralleli che Parente ha pubblicato sulle piattaforme digitali la scorsa estate, il discometraggio American buffet e l’omaggio a Dino Campana I passi della cometa, lavori sperimentali nei quali a prevalere sono la ricerca sul suono e un approccio ludico. Life, nelle parole del suo autore, è invece un “disco più ortodosso nella forma”, ma comunque frutto dello stesso spirito compositivo.
Abbiamo raggiunto Marco Parente telefonicamente e ci siamo fatti dire qualcosa di più a proposito dei suoi ultimi progetti.
Sono passati sette anni dall’ultimo disco, Suite love, ma nel solo 2020, oltre a Life, altre due uscite, una sotto lo pseudonimo di Buly Pank, American buffet, l’altra un omaggio a Dino Campana, I passi della cometa. In tempo di pandemia non è poco.
Cosa è successo nei sette anni precedenti a Life? Perché proprio questo strano 2020 per tornare?
Life era pronto da far uscire già nel settembre del 2019, perché è un lavoro che nasce da lontano, ci ho messo tanto tempo anche se non me lo potevo permettere, ma poi per vicissitudini burocratiche e discografiche c’è stato un fermo e una lunga attesa. Sapevo che sarebbe dovuto uscire nell’ottobre 2020, ma non potevo immaginare che in mezzo ci sarebbe stata una pandemia.
Durante il lockdown c’è stato un momento di panico e incertezza su qualsiasi tipo di futuro, poi la morsa si è un po’ allentata e tutto stava più o meno ripartendo; avevo già pronti da un po’ di tempo American buffet e I passi della cometa, e dato che tutte le strategie erano saltate, con l’etichetta abbiamo deciso di far uscire questi due lavori a distanza ravvicinata e in digitale per arrivare a questo ottobre e a Life, che è sempre stato il centro di tutto, il disco più ortodosso nella forma.
Anche se affermi che Life non è un concept, le riflessioni centrali del disco riguardano proprio la vita e l’amore e, in particolare, in chiusura c’è Bar 90, nella quale affermi che la vera esistenza e il vero amore sono nel caos di una via e di un posto popolare come un bar di periferia.
Da cosa nasce questa convinzione o, se vogliamo, questa poetica?
Life e tutte le ultime cose che ho fatto sono nate nel contesto del mio quartiere, un normale quartiere di Firenze non troppo centrale, una sorta di microcosmo, perciò io, come deve fare chi opera con l’anima e che per convenzione chiamiamo “artista”, ho osservato il mondo sotto casa mia, che poi è quello che si ripropone in tutte le città, in tutti i luoghi: cambiano i vestiti, le consuetudini, le tradizioni, ma i meccanismi essenziali della vita, come i rapporti e l’amore, sono sempre gli stessi e sono vissuti sporcandosi le mani e il cuore in quelle situazioni senza riflettori, perciò a noi non resta che osservare tutto questo da spettatori invisibili e poi tentare di tradurlo come intrattenimento per la realtà.
Quello di Bar 90 potrebbe essere un bar qualsiasi e cito Pasolini non per velleità intellettuale, ma perché diventa un simbolo di questo senso della vita. Lui fino alle otto di sera scriveva, postulava, cercava, poi chiudeva la macchina da scrivere, saliva sulla sua auto e andava a sperimentare ciò su cui aveva scritto e riflettuto. In questo senso il Bar 90 diventa metafora e simbolo di quel luogo in cui le persone si ritrovano a vivere il caos e a dargli un senso, una dimensione e una visione: è questa cosa che chiamiamo vita, che in fondo non sappiamo bene cos’è, ma di cui comunque non possiamo fare a meno, a cui tutti ci aggrappiamo fino all’ultimo, nonostante tutti sappiamo che ha dell’assurdo.
Tu mi hai detto che il disco era praticamente pronto dallo scorso anno e adesso mi stai dicendo che il tuo quartiere, mentre ci lavoravi, era diventato un punto privilegiato da cui osservare la realtà da tradurre in musica. Durante il lockdown siamo stati tutti chiusi in casa per due mesi.
Qualcosa è rimasto di quello che avevi osservato in precedenza o ha subìto una variazione e delle modifiche importanti?
Questo è un po’ presto per dirlo, perché la storia bisogna iniziare a valutarla quando non ci sei così tanto dentro e rischi di essere poco obiettivo. Credo che tutti stiamo facendo i conti con qualcosa che cambierà il modo di vivere, anche se sembra che non ce ne siamo accorti e che molti non vogliano proprio rinunciare a quella che chiamano “libertà” e che non capisco cosa abbia a che fare in realtà con la “libertà”.
Troveremo il modo di uscire e andare al bar, vedere gli amici lo si farà sempre, però questo ci deve anche fare un po’ riflettere. Durante eventi come questi tutto si ferma e in qualche modo si vede il proprio simile come qualcuno con cui confrontarsi e fare comunità, poi si riparte e si torna ad essere cinici, odiosi e frustrati e tutto quello che ne consegue.
Di sicuro il disco non ha subìto variazioni, perché ormai era chiuso. C’era solo il pensiero di una cosa che era lì, ferma, in cui magari non mi sarei più riconosciuto o che non mi sarebbe più piaciuta. Invece questo non è assolutamente avvenuto. Questo lavoro mi stava aspettando come sospeso nel tempo, era molto limpido e non mi era sembrato per niente invecchiato, per cui non ho sentito alcun bisogno di rimetterci le mani.
In I passi della cometa, come in American buffet, ho notato che giochi molto con l’elettronica e con la sperimentazione, come se suonare Dino Campana ispirasse anche una certa audacia sperimentale. Questo aspetto appare solo in parte in Life, eppure caratterizza alcuni fra gli episodi più interessanti, come ad esempio Ok panico!, che nel titolo e nelle sonorità mi ricorda un po’ i Radiohead, ma non so se tu ci hai pensato.
Quanto è importante e quanto ti interessa sperimentare? L’elettronica è un valore aggiunto?
In tutti questi lavori, sia per la ricerca che per l’elettronica, che è abbastanza suonata, ho fatto tutto da solo nella mia stanza, quindi ho affittato dei macchinari con cui ho iniziato a giocare. C’è un aspetto molto ludico nel modo in cui ho approcciato l’elettronica e in generale proprio il suono, ma questo l’ho sempre fatto, d’altronde vengo da quel mondo, ad esempio Brian Eno e David Sylvian sono punti di riferimento.
Per me la prima cosa è il suono e ciò che esso suscita anche a livello emozionale. Non lo facevo da un po’, ma in questo caso sono anche arrivato a editarmi e questo ha implicato una forma di lavoro e di percorso in cui ho tenuto tutto sotto controllo senza passare dal musicista, dal produttore, dal fonico. Questo ha fatto sì che il lavoro sul suono e sul dettaglio sia stato micro-molecolare.
Tutti e tre i lavori nascono nella stessa situazione, quindi nella mia stanza, con quei macchinari, perciò è inevitabile che, seppur in forme diverse, I passi della cometa, American buffet e Life sono accomunati da questo tipo di ricerca.
L’elettronica a me interessa se viene usata al servizio dell’atmosfera e poi al servizio della composizione. Io scrivo canzoni, mi piace l’aspetto della composizione e tutto questo, per me, che sia tramite l’elettronica o un’acustica, appartiene ad una tavolozza di opzioni che ho a disposizione, ma per me l’approccio è molto istintivo, poco derivativo e poco modaiolo che, sì, può ricordare qualcosa. Tu, per esempio, hai fatto riferimento a Ok panico! e hai pensato ai Radiohead, ed è buffa questa cosa, perché io invece so esattamente chi sono i maestri e qual è la derivazione di quel suono, perché lì ho fatto quasi un omaggio a David Sylvian, mentre il ritmo e l’atmosfera vengono dalla mia passione negli ultimi anni per il flamenco inteso come scienza. Arrivo a dire questo: credo che la musica sia iniziata col flamenco, trovo che sia l’arte più completa e complessa, perché passa dal gesto, dalla danza al suo relativo ritmo e alla sua complessità armonica e vocale.
Hai sempre collaborato con musicisti di grande spessore, la batteria di Linea gotica dei C.S.I. è suonata da te e nel tuo album d’esordio ospitavi Carmen Consoli. Enrico Gabrielli ha curato il quartetto d’archi in un brano contenuto in Life, Lo spazio tra i personaggi.
Cosa ti dà collaborare con colleghi e colleghe? La pandemia secondo te sta allentando o rafforzando i legami tra gli artisti?
Per il discorso che facevamo prima non credo che la pandemia stia allentando i legami fra gli artisti. C’è più bisogno di stringersi, tutto sta se ci sono dei territori comuni o degli interessi che non siano solo il panico da pandemia.
Io fin dall’inizio ho sempre collaborato, mai per calcolo, ma per reale stimolo ed empatia nei confronti di qualcosa o qualcuno, e l’ho sempre fatto nello stesso modo o per strade che si incontrano, come è stato con Manuel Agnelli tramite Cristina Donà. Altre collaborazioni sono state molto mirate: ad esempio Carmen la vidi da Red Ronnie, rimasi talmente colpito da lei che cercai in tutti i modi di coinvolgerla. Di solito, quando questo avviene è perché penso che sto lavorando a qualcosa in cui io non mi basto, perciò ho modo di dare completezza a quel che sto facendo. Questo è avvenuto soprattutto per i duetti, come nel caso di Carmen Consoli e Cristina Donà.
In Life sono presenti riferimenti a Pasolini e hai dedicato un intero lavoro a Campana.
Qual è il tuo legame con la letteratura e come la letteratura si incastra con la musica?
Non sono un lettore onnivoro, ma comunque leggo. Tutte le cose che vado a leggere o a scoprire avvengono per delle coincidenze e non solo per una ricerca. Se quel che sto leggendo mi solletica e colpisce, vado ad approfondirlo e normalmente lo faccio attraverso il mio campo, che è quello musicale. Sempre di più tendo ad approcciare la poesia e la letteratura in generale tramite il senso della musica, vado a cercare più che la parte del significato, quella della musicalità della parola.
Le citazioni non sono mai troppo dirette. In Bar 90 Pasolini diventa l’esempio lampante di quello che volevo dire, mentre con Campana l’incontro è stato casuale. Non l’ho riletto, dai Canti orfici ho estrapolato poco, ma ho costruito invece un percorso sull’aspetto del paesaggio sonoro e da musicista sono andato a cogliere l’aspetto musicale che c’era nella sua poesia. In questo trovo un senso e anche un rispetto nei confronti del poeta.
Questione concerti. Come vedi la situazione?
Io fino a quindici giorni fa ero quasi contento, perché erano state già annunciate diverse date a partire da novembre. Si stava lavorando con l’incognita di dover suonare al chiuso, ma poi ho iniziato ad aspettarmi che da un momento all’altro, dato che la situazione si stava aggravando, potesse saltare tutto. Io credo che chi si stava organizzando al chiuso lo stesse facendo nella massima sicurezza, però capisco anche che nell’ordine di una gestione generale tutto questo possa subire un divieto. Io faccio quello che sento che devo fare e che comunque capisco che mi viene anche chiesto di fare e poi vediamo, speriamo bene.