-di Assunta Urbano-
Se ne parlava già da qualche mese di Marco Fracasia. Tutto è partito a dicembre, quando 42 Records ha spedito cento musicassette in esclusiva per presentare a pochi amici e addetti ai lavori la prima canzone “black midi”. Il secondo “step” è stato a metà marzo, quando, tramite due showcase, il giovanissimo talento torinese ha presentato dal vivo il suo EP “Adesso torni a casa”, uscito proprio l’11 dello stesso mese.
Abbiamo assistito al live romano, nel cuore della Capitale. È stato indubbiamente speciale trovarsi ad ascoltare un progetto in cui si mescolano le influenze più disparate, dal dream pop all’indie grezzo di primi anni Duemila. Ma soprattutto è stato importante esserci, vivere l’esordio del nuovo talento di casa 42 Records, che con la sua genuinità, sincerità e anche una certa sfacciataggine saprà come prendersi un suo posto nel panorama musicale. Uno spazio in quella scena, che ormai non esiste più e ha bisogno di volti nuovi, lontani da becere logiche di mercato.
E Marco Fracasia ci è piaciuto per questo motivo: l’unica cosa che gli interessa è fare musica, bella. Un vero outsider, di una generazione (forse non solo la sua) che desidera raggiungere il successo, anche mettendo da parte la materia artistica.
Progetti del genere ci fanno sperare che il futuro della musica italiana non sia così grigio. Abbiamo intervistato l’artista per catapultarci nel suo mondo.
“Adesso torni a casa” è l’esordio di Marco Fracasia. L’EP è stato presentato l’11 marzo nella tua “casa” all’Off Topic di Torino e il giorno seguente a EXP (Caffè delle Esposizioni) a Roma, culla di 42 Records. Come hai vissuto queste due serate e che impatto hanno avuto sul tuo percorso?
Sicuramente le ho vissute in modo diversissimo. A Torino c’erano tutti i miei amici, non pensavo venisse così tanta gente. Ero molto più agitato. A Roma non avevo aspettative, ma è stato ugualmente emozionante. Erano i nostri primi due concerti con questo progetto. C’era tanta tensione, però credo che mi abbiano sbloccato, sono serviti come una sorta di svezzamento.
È stato anche un rischio, presentare un disco per la prima volta davanti a tante persone che non conoscono i brani.
Sì, è vero. Sono due serate servite forse più a me che a chi è venuto a vedermi.
Parliamo dell’EP che hai presentato dal vivo. È ricorrente il tema del ritorno. L’ho percepito come il perdersi, all’esterno e in se stessi, e la fine, il ricongiungimento con un posto accogliente, diventa nuovamente “Un inizio”.
Forse un po’ ci hai preso. Forse. In quasi tutti i pezzi ripeto spesso “torni a casa”, tranne nell’ultimo in cui c’è la prima persona “torno a casa anche io”. In realtà, non si tratta di un vero e proprio percorso, perché sarebbe un concept e a me non piacciono molto. Possiamo vederla a metà strada. Come dici tu, può essere interpretabile ed è molto bello che questo accada nella musica.
Non ci sono segni di interpunzione nel titolo. “Adesso torni a casa” è una domanda, un’invocazione, un invito o una minaccia?
Sicuramente non è una minaccia. È una frase che ripeti a te stesso.
In “Ti voglio dire quanto sono stato male” “ritorni a casa” affermando “ho già vent’anni e non ci riesco a stare”. Anche se appartieni per motivi anagrafici alla Generazione Z, non saranno i tuoi coetanei ad ascoltarti, ma probabilmente avrai seguaci più adulti. E questo l’abbiamo notato al live romano. Ti senti parte della tua generazione?
Secondo me, sono arrivato ad avere una mia cerchia ristretta di persone con cui condivido esperienze di vita. Sogno un po’ che quella sia la mia generazione. Però, poi esco, mi rendo conto che fuori da questa immaginaria bolla è tutto diverso e mi sento addosso sessanta anni. Quindi, per risponderti, non so se mi sento parte della mia generazione perché non so quale sia la mia generazione. Per il pubblico, sono contento se mi ascolta un ragazzino di quindici anni, come un adulto di cinquanta. Credo che chi preferisce il pop di oggi, però, difficilmente si avvicinerà a Marco Fracasia.
C’è un rischio che si corre con l’esordio ed è essere costantemente paragonato ad altri artisti del panorama musicale italiano. Ti è già successo? Ti riconosci in questa scena attuale?
Non saprei. La musica che ascolto non fa parte della scena. Alla fine, è soprattutto la stampa che ha alimentato questo panorama. Per stare artisticamente sereno, ho bisogno di immaginarmi che non esiste una scena e non ci sono playlist. Ammetto che non so molto bene come funzionano tutte queste cose. La scena dei miei sogni sarebbe quella in cui ogni artista fa musica solo per il piacere di farla.
Questo è lo spirito che manca da un po’ nella musica.
Il tuo progetto è stato presentato a dicembre, quando sono state spedite in esclusiva cento musicassette di “black midi”, ventiquattro ore prima della versione del brano in digitale. Quanto è importante per te il supporto fisico?
Tantissimo. L’idea è partita da Emiliano [Colasanti, 42 Records, ndr] e io l’ho subito abbracciata. In realtà, inizialmente si era pensato di andare a Milano, il 14 dicembre, alla data live dei Black Midi a regalare le cassette al pubblico. E magari farci denunciare dalla band [ride, ndr]. Così, abbiamo optato per spedirle ad alcune persone, tra amici e addetti ai lavori. A me piacciono queste cose, le preferisco sicuramente rispetto al finire in una playlist. Sono gesti concreti. Tra dieci anni, potrei aprire un cassetto e ritrovare il supporto fisico di qualcosa che ho fatto io. Non è equiparabile.
In “Solfeggio” canti «Una testa piena di idee, una lista di cose da fare, prima di diventare come voi». Chi sono i “voi” a cui si fa riferimento?
Guarda, non lo so, questi testi sono orribili! [ride, ndr] Li ho scritti quando ero arrabbiatissimo. Ti direi che sono quelli che non sopporto, ma non ne sono sicuro al massimo. Probabilmente me la stavo prendendo con quelli del pub sotto casa di mia nonna.
Intrufolandoci nella mente di Marco Fracasia, quali sono le idee che ti riempiono la testa?
Ecco, queste esistono davvero! Ultimamente sono un po’ ambizioso, quindi vorrei chiudermi e tirare fuori roba veramente valida. Non penso che l’EP, con i suoi quindici minuti, possa svoltarmi la vita, ma è un primo passo. Vorrei fare questo lavoro nella vita e vorrei concretizzare quello che ho dentro. Fare qualcosa di importante e far vedere che ce la posso fare.
Sempre da “Solfeggio” ti cito «Per pensare un viaggio servono le palle, i coglioni, l’incoscienza, il tatto di non dire». Cosa è stato necessario per dare il via a questo progetto?
Ho litigato con una persona e subito dopo ho scritto la prima canzone, “Ipersoap”. Quindi, forse è nato tutto proprio da quella litigata.