– di Yna –
C’era una volta il pop, abbreviazione di una parola oggi molto poco utilizzata, cioè “popolare”. Ma cosa si intende per musica “popolare”? La musica pop racchiude in sé il senso della fruibilità, della piacevolezza, della cantabilità, ha il potere e l’obiettivo di unire le voci e stringere i cuori, aprire la mente nella sua semplicità, trovare un filo comunue che possa legare i sentimenti di tutti. Come tutte le cose, anche il pop ovviamente si è evoluto nel tempo, con le avanguardie tecnologiche, con le influenze di vari generi andando a costituire, alle volte, un angusto posto di involuzione dove sono andati inevitabilmente a finire tutti gli scarti rilevati dal processo della sua maturazione.
Ci capita spesso – soprattutto ultimamente – di trovare più che il pop vero e proprio, un’estremizzazione di se stesso, nonché la sua profonda sparizione di senso e di forma: nessuna traccia di ritornellone, parole incomprensibili, ritmiche serrate, sperimentazioni sterili e prive di contenuto. Si può chiamare ancora pop? La storia ci insegna che ogni qualvolta ci troviamo di fronte a qualcosa di nuovo, si crea un neologismo per definirlo e possederlo, almeno concettualmente, come con “hyperpop”. I pionieri di queste sperimentazioni che mischiano hip hop, rap, trap, pop, elettronica e chi più ne ha più ne metta, hanno dalla loro il fatto di aver creato un mondo, variopinto, davvero molto riconoscibile, ma se sei al di fuori di quell’“UNIVERSO” ti viene difficile entrarci.
Ascoltare “UNIVERSO” di Mara Sattei, prodotto dal super talentuoso fratello tha Supreme, mi ha dato questa sensazione: è difficile comprendere una storia se non ci stai dentro, com’è altrettanto difficile vedere e sentire le cose che stonano se ci stai dentro. È un “UNIVERSO” che inganna, molto esclusivo, sicuramente attraente, con tanti angoli e spigoli, estremamente bilanciato, una perfezione maniacale e rigida, un viaggio alla ricerca dei limiti che inscatolano e descrivono quel genere, tanto caratterizzanti e potenti quanto in un certo senso limitanti.
Tutto si è evoluto molto in fretta, molto spesso senza darci il tempo e l’opportunità di stare nelle cose, come una cascata di parole, le stesse che usa con tanta maestria Mara Sattei per riempire tutti i vuoti. Che i vuoti molto spesso sono più pieni dei pieni, anch’essi espropriati e estremizzati nel loro senso. E ci azzardiamo a dire che forse con un respiro in più e una presa di coraggio e di posizione maggiore, Mara avrebbe potuto uscire dalle grinfie di questo “UNIVERSO” distorto e distopico ed esprimersi liberamente, libera dalle produzioni angolate messe a punto dal fratello, libera da un personaggio che fatica giustamente a emergere, semplicemente perché a parer mio ha davvero molto di più e molto altro da offrire. A onor del vero, la sua voce rimane riconoscibilissima, nello stile e nella scelta ritmica delle parole.
Quando un artista decide la propria modalità comunicativa, è giusto che ci rimanga, che ci si trasformi e ci trovi risorse ma che non si allontani troppo. Hai una plastilina, ci dai le forme che preferisci, ma la plastilina rimane quella, verde, blu, gialla, rossa. È come quando cerchi di far cambiare a qualcuno l’idea che si è fatto di te, uno sforzo immane, talvolta inutile, e il mercato non è d’accordo con gli sforzi che si vanificano, non è, attualmente, pronto a rischiare su progetti non definiti, lavori di identità troppo onerosi e rischiosi. Sei quello, ti riconoscono per quello, rimani quello, magari fallo al massimo, ma rimani quello. “UNIVERSO” della Sattei si ripete e si incastra sulle stesse melodie.
Alcuni brani partono bene, si ammorbidiscono sulle stesse cose di un tempo, in un incrocio ibrido tra lei e il sound di tha Supreme. Riconoscibilissima, ancora un po’ timida sulla forza della sua identità autonoma. Ritornelli e sonorità già sentite, che spostarsi un po’ più in là può essere pericoloso, troppo. I testi e l’introspezione sono i punti forti del disco, che vanno a dipingere l’intuizione armonica che si ha del disco. Parole mai finite, si incastrano e a volte disturbano, ma trovano un modo di farsi spazio tra le scelte.
I feat sono quelli di uomini che sbiascicano costantemente, dalla forte identità, Gazzelle e Carl Brave, riparlano di angoli, mosaici che non si incastrano, sempre le stesse figure geometriche che da “Spigoli” sembra che semplicemente non abbiano ancora trovato pace. Mara è brava, molto brava, elegante, ci tiene molto a tutto ciò che fa e dà una voce al sound di tha Supreme, con i valori e i limiti del caso, «Come fratelli siamesi che odiano un pezzo di sé». Forse nel duetto con Giorgia Mara ritrova il suo lato più vero ed emerge di più la sua voce nelle sue peculiarità più soul, ci piace molto. Si tratta comunque del suo primo album, un varipinto manto di stelle in cui suggestioni, immagini, parole si illuminano a fasi. Sul piatto è stato messo tutto.
Ma se nello spazio non ci sono esseri umani, non c’è una grande comunicazione, allora “UNIVERSO” rientra in pieno in questo concetto: coerente, calzante, in stile, onnicomprensivo. D’altronde la parola deriva dal latino universus, cioè “tutto intero”. Tuttavia questo “UNIVERSO” risulta ancora troppo piccolo e sembra non lasci “spazio” a tante altre possibilità, rimaste in potenza almeno per il momento.