– di Riccardo De Stefano
foto di Liliana Ricci –
Quando ero adolescente, e ancor di più nella mia post-adolescenza, ascoltavo soltanto musica straniera, come quasi tutti i ragazzi nati negli anni Ottanta. Non solo, avevo la fissa del progressive rock anni Settanta, quindi facevo parte di una piccolissima nicchia nerd autoreferenziale. Non c’era spazio per nessuno che fosse italiano: la musica, da noi, era un insieme pasticciato di pop banale e senza coraggio, influenze americane e testi edulcorati.
D’altronde la musica alternativa e indipendente (quando questo termine aveva un significato diverso) passava poco in tv, e quello che non passava in tv era difficile da scoprire.
IO, GLI AFTERHOURS E LA MIA ADOLESCENZA
Però Manuel Agnelli e gli Afterhours li ricordo, e me li ricordo molto bene. Sarà stata la fine degli anni Novanta quando vidi il video di “Sui giovani d’oggi ci scatarro su” e fin da subito fu amore immediato: non c’era nient’altro che aveva la stessa forza e la stessa arroganza di quello che capitava in quella canzone e quel video. Sembrava un artefatto venuto da un mondo lontanissimo. Così, anni dopo, nel 2005, vidi per la prima volta gli Afterhours dal vivo, a un Festambiente: con me, c’era la mia famiglia, comprensiva persino degli zii, e se aveste avuto modo di vedere la reazione di mio zio, per il quale Nicola Di Bari è la massima espressione musicale, potreste capire quanto i live degli Afterhours fossero una cosa selvaggia e violenta (oppure avreste potuto vedere le mie condizioni fisiche dopo un paio d’ore di pogo sottopalco).
MANUEL AGNELLI, OGGI
Insomma, in quel mio pantheon musicale fatto di Robert Fripp, Peter Hammill e Peter Gabriel, un piccolo spazietto c’era solo per Manuel Agnelli, un artista che ha saputo raccontarmi l’altra faccia della musica, e che innegabilmente ha tirato fuori una produzione che, negli ultimi trent’anni, non conosce punti bassi.
Ma dopo aver creato un circuito indipendente ed essere diventato giudice a X Factor, oggi Manuel non ha più bisogno del nome Afterhours per presentarsi sul palco, ed ecco che il nuovo tour da solista non lo vede più nei teatri ma sui palchi dei festival italiani, con una nuova formazione che l’accompagna.
Così, dopo averlo visto una decina di volte in altrettanti anni, ricapito a un suo concerto, Manuel senza gli Afterhours, dopo due anni di COVID, a cinquantasei anni inoltrati. L’occasione: il concerto a Villa Ada a Roma.
MANUEL AGNELLI IN TOUR DA SOLISTA
Dopo l’apertura dei Mutonia, vedere salire sul palco Manuel, con una specie di tubino di pelle nera, accompagnato da una formazione completamente diversa è alquanto straniante, eppure comprensibile: Agnelli vuole togliere il dubbio che quello sia un concerto degli Afterhours, per cui non c’è spazio neanche per il fidatissimo Rodrigo D’Erasmo. Al posto suo – e degli altri della band – ci sono i Little Pieces of Marmalade, promossi dopo la loro partecipazione a X Factor, Beatrice Antolini – cantautrice e factotum di Agnelli, come già di Vasco Rossi e Tommaso Paradiso – e Giacomo Rossetti, tra basso e bidoni.
Lo show è bello e divertente, con Agnelli che apre le danze con i primi singoli da solista, “Pam Pum Pam” e “Signorina mani avanti”, per evitare il singalong facilone e rivendicare il nuovo materiale come punto di partenza e come presente discografico, prima di imbarcarsi nel repertorio storico degli Afterhours con classici come “Veleno”, “Male di miele”, “Quello che non c’è” e “Ballata per la mia piccola iena”.
Certo, oggi che Agnelli ha 56 anni magari deve stare più attento con la voce e gli eccessi, e per esempio proprio in veleno lascia le parti più urlate a Daniele Ciuffreda alla batteria, eppure non sembra un compromesso, ma un riconoscimento per i musicisti sul palco, quasi non fossero la “band di Agnelli” quanto artisti scelti per accompagnarlo, paradossalmente il contrario di quanto si potrebbe pensare per gli Afterhours. Sembra un Agnelli più leggero e libero sul palco, che riesce a portare qualcosa di proprio senza doversi sobbarcare il peso dei tanti decenni d’esperienza della band.
UNO SHOW DIVERTENTE
E se due anni di lockdown hanno influito su tutti e tutto, Agnelli non perde il suo senso dell’umorismo quando dice che «mi è mancato tutto un sacco… forse persino voi», né quando introduce il suo nuovo repertorio solista a metà concerto, rivendicando la dignità dell’opera su commissione (e che anche Da Vinci si metteva a fare opere su commissione, rimanendo un genio nonostante tutto – e nonostante i suoi passatempi privati “in bottega”): “La profondità degli abissi”, colonna sonora del film di Diabolik dei Manetti Bros. non è sicuramente il brano migliore della sua carriera, ma dargli lo slot centrale del concerto è giusto e inevitabile. Come d’altronde simpatico e “giusto” il siparietto per “Proci”, coraggioso nuovo brano che anticipa l’album di settembre suonato a due pianoforti in compagnia di Beatrice Antolini, pezzo di avantgarde rock di cui non si può parlare male mai nella vita.
Da lì fino alla fine è un susseguirsi di classici, con la combo punk di “Dea” e “Lasciami leccare l’adrenalina” che in tre o quattro minuti spazza via i dubbi se Manuel sia invecchiato male: no. Infine, dopo gli inevitabili encore – a cui si aggiunge a sorpresa “La sottile linea bianca” per acclamazione popolare – il concerto finisce lasciandoci il piacere di ritrovare un grande artista che ha fatto la Storia della musica italiana degli ultimi decenni, sopravvissuto in quanto credibilità artistica persino alla televisione più becera.
UN PUBBLICO INVECCHIATO
Quello che non è cambiato, d’altronde, non è però solo Manuel, rimasto lo stesso animale da palco nonostante gli anni: quello che non è cambiato è pure il pubblico. A guardarmi intorno, vedo che l’età media è decisamente alta, sopra i trent’anni. Il che mi fa pensare che le stesse persone che pogavano con me a Festambiente nel 2005 (vabbè magari non loro, però, ecco) oggi hanno diciassette anni in più e tornano a vedere Agnelli sul palco.
Solo che vedere un concerto a diciott’anni e uno a trentacinque non è la stessa cosa. Per cui il grande freno del concerto è stato proprio il pubblico, sicuramente emozionato e partecipe, ma non più elemento attivo dello show, quanto solo elemento passivo. Per intenderci: le botte prese anni addietro per “Lasciami leccare l’adrenalina” non le ho più ritrovate, tantomeno a Villa Ada, dove il pubblico maturo si guarda bene dal lasciarsi travolgere dalla foga violenta e autodistruttiva del brano.
IL ROCK È UN GENERE PER VECCHI?
E questo mi fa pensare se il famoso e famigerato “vero rock” non sia allora un genere per vecchi. Perché Agnelli, almeno lui, non si può discutere su questo: è, insieme a pochissimi altri, l’emblema del rock italiano, ancora oggi, nonostante l’età, grande trascinatore e splendido performer, nonché autore.
Eppure, a giudicare dall’età del pubblico, gli appassionati di “vero rock” sono ormai persone adulte che si godono lo show nella serenità dei loro anni, un po’ stanchi e impacciati.
Quello che sembra mancare, ad Agnelli come a un intero genere, è il necessario ricambio di pubblico, il parlare alle nuove generazioni per coinvolgerli in qualche cosa che evidentemente non conoscono né forse riescono ad apprezzare appieno. Il che paventa il rischio, per Agnelli e per un intero genere, di divenire un curioso fenomeno da vedere, scatenato sul palco e dai ritmi e dai suoni a volte estremi, eppure percepito quasi come easy listening distaccato dal proprio pubblico.
Se così fosse, ci sarebbe da immaginare un futuro dove tutti noi, ormai arzilli vecchietti, ci ritroviamo seduti in qualche teatro a sentire cantare qualche vecchietto di ali nere e mantelli, proiettili che ti liberano, pensieri superficiali, adrenalina leccata.
Forse un giorno succederà, però fino ad oggi abbiamo ancora il privilegio di sentire sul palco un grande artista, capace di offrire uno show di “vero rock” nonostante tutto e tutti, il che, se ci pensate, non è affatto scontato.