– di Yna –
L’origine è la fine, il fine, perché è proprio in quel punto in cui si origina il tutto che si comprende anche il senso ultimo delle cose. I greci lo chiamavano archè, ἀρχή, quella forza propulsiva che immette vitalità nelle cose e che per la stessa forza attrattiva di senso riporterà il tutto a sé piena di questo significato ritrovato. Ed è proprio questo concetto che è alla base di “V”, ultimo lavoro di Mannarino, uscito lo scorso 21 settembre, un viaggio alle radici ataviche dell’uomo e della socialità che è risorsa di comprensione e di umanità, risoluzione di tutto ciò che non ci appartiene in quanto ci ricongiunge con la nostra vera identità. Al fondo di questa bottiglia vorticosa fatta di evoluzione umana, c’è l’indigenità, parte costitutiva e intrinseca di tutti noi, da cui si origina il tutto, a cui tutto fa, nel futuro, ritorno.
L’album si apre con “Africa”, un andamento lento che si fa spazio fra le fronde di una spiaggia notturna, in una zona in penombra che è l’intimità dell’essere umano; la produzione elettronica e un po’ chill agevola il passaggio e rende questa traccia un intro perfetto, che sembra quasi una chiusura, in linea col senso dell’album. Il viaggio verso le viscere della terra continua con “Congo”, ulteriori ritmi esotici incalzano all’inizio del brano; Mannarino mantiene la voce bassa, quasi per non svegliare nessuno, quel risveglio che sa di ragione, di sole e di scienza, mantiene la voce bassa perchè parla di qualcosa che evidentemente non può essere detto: il desiderio carnale, fonte di vita e di speranza. Arriva una chitarra, quella di “Cantaré”, il primo brano più pop che incontriamo in questo viaggio, scritto da Mannarino e prodotto con Joey Waronker e Iacopo Brail Sinigaglia. “Cantaré”, singolo uscito lo scorso agosto, è un inno alla voce, ballato tra italiano, spagnolo e romanesco: ogni cosa ha una propria voce, mezzo di comunicazione e di ribellione, che mette in contatto l’individualità con l’esterno permettendoci di uscire da una condizione di solitudine; la voce, mezzo di riscatto e speranza, per cui Mannarino qui si ricongiunge un po’ con le sue melodie tipiche.
“Fiume Nero” rappresenta il cuore di questo album, un cuore nero in cui si confondono i colori, le identità che abbiamo da sempre con attenzione chirurgica provato a disegnare, identità che però hanno un senso se mischiate con le altre, e se un po’ si disperdono; la chiave della razionalità si ricopre di nero pece quando si scende nel fiume nero, dove il tuono sta dentro al lampo e la luce dentro al buio, il sentire è altro rispetto a ciò che riusciamo a razionalizzare; i suoni tribali si fondono con l’elettronica, matematica armonica di un nuovo schema percettivo, per vederlo meglio si deve spegnere la luce. L’irrazionale e il naturale sono due protagonisti indiscussi di questo album, e l’acqua è un fondamentale di questa dialettica inesauribile.
“Agua” racconta questo, di come tutte le cose siano fatte d’acqua, dal veleno del serpente alle vene delle gambe, ai fiumi, è cosa auspicabile quanto deprecabile, «Agua de cielo, agua de fuego». Mannarino racconta la storia dell’uomo, racconta di guerre, di amore, di storia e di un destino da cui nasciamo e a cui arriviamo tutti senza distinzioni di sorta, perchè come siamo stati tutti indigeni, così siamo stati tutti colonizzati. La cornice di queso dipinto a tinte fosche è un coro di donne, culla dell’umanità, centro della nascita, del desiderio, dell’amore, indigene combattenti “As Karuanas”. Tutto viene e tutto torna acqua, il destino comincia, il destino si chiude.
Il viaggio continua in Amazzonia, nella regione del Tapajos, luogo più colpito dalle politiche anti-indigene del governo Bolsonaro in Brasile: qui è stato realizzato “Amazónica”, in cui la voce delle donne indigene canta un testo scritto con Mannarino. Le cantanti del brano hanno perso amici e familiari nella lotta (invisibile in Occidente) che i garimpeiros portano avanti contro i resistenti indigeni.
Tutte le strade potrebbero condurre a New York, con “Banca De New York”, dove si può ritrovare qualche traccia del vecchio Mannarino arricchita dai nuovi input del viaggio. Registrata tra Roma e Città del Messico, frutto della collaborazione con Mexican Institute of Sound la “Banca de New York” è un esperimento pieno di sarcasmo e di ardimento, dove il romanesco si fonde con i suoni acidi dei campi di cotone del Mississipi. È in questa cornice scherzosa che si potranno raccontare tragedie indicibili alla luce del sole.
Andando avanti nell’ascolto del disco, il volto dell’uomo lascia spazio a quello della donna, vera nella sua carnalità, schietta nella sua passionalità. “Vagabunda”. Il femminile è rifugio per un uomo in fuga da se stesso, in un ritmo che mischia dub-reggae, alla samba, ad altre voci indigene intrecciate a moog elettronici. Un vuoto pienissimo di identità, carnosa e ipnotica.
Il ritmo si scalda con “Ballabylonia”, un passaggio quasi inevitabile dalla giungla alle luci della città, al villaggio globale in cui una ragazza si catapulta. Si parla di Iracema, ora costretta a migrare verso altri lidi, quelli della giungla vera, che nella sua dinamicità nasconde altri tipi di dinamiche, frenetiche, buie, raffreddate e pericolose. I tamburi sono quelli della musica da club che accompagnano il ritmo frenetico della canzone e dei piedi di una ragazza che calpesta un altro mondo. A questo punto, arrivati verso la fine del disco, l’immagine di donna si è riveltata come un’immagine universale, portatrice del senso della rivolta umana contro gli schemi del sistema che incastra la vista e il sentire vero dell’essere umano indigeno. È l’immagine della donna in copertina, con il passamontagna a coprirle il volto, per combattere, nascondersi per proteggersi, proteggersi per combattere. Una cumbia elettronica ci accompagna nell’universo latino, per descrivere una “Bandida” contro il sistema partiarcale. La donna ribelle rappresenta un sistema ancestrale contrapposto a quello costituito, religioso, statalizzato, ed è a questo punto che si rivela il concetto di tutto l’album: sovvertire vuol dire eliminare il superfluo per tornare a ciò che di più originario c’è, e non è Adamo, ma Eva. «Lei lasciò solo una scritta sul muro: “Pagheranno caro, pagheranno tutto”, voi picchiate duro, aprite una breccia e vedrete il futuro» racconta Mannarino in “Lei”, penultima traccia del disco.
L’epilogo del viaggio della ricerca, prodotto dallo stesso Mannarino e registrato tra New York, Los Angeles, Città del Messico, Rio De Janeiro, l’Amazzonia e l’Italia, è “Luna”, un pianeta che simboleggia il percorso antico di ricerca dell’identità umana all’interno della femminilità quale epilogo e origine di tutto. La Luna a questo punto racchude un mondo lontano che si separa dall’uomo; ciò che gli resta da fare è rimanere solo ad ammirarla per poi, alla fine del viaggio, non avere più “Paura”.