– di Riccardo De Stefano
foto di Gabriele Giussani –
I Måneskin. Vent’anni, sulla carta e cantati, e già una carriera lunghissima. Diventati volti familiari a X Factor 2017, dove arrivarono secondi, hanno poi fatto il passo lungo con una serie di sold out invidiabile. Un primo disco, “Il ballo della vita”, di grande successo, poi la partecipazione a Sanremo 2021. Qui, l’inaspettato: seppure partiti in sordina, si ritrovano nel rush finale con Michielin + Fedez e Ermal Meta, fieri avversari dalle chance assai alte di vittoria. A sorpresa, però, “Fuori di testa” diventa il primo brano rock a vincere Sanremo, lanciando i Måneskin come la band del momento. Il loro nuovo album si intitola “Teatro d’ira – Vol. I” e, innegabilmente, è un disco rock, pieno di rabbia (post adolescenziale) e grondante di quella sfacciataggine che da sempre accompagna Damiano, Victoria, Thomas e Ethan.
La prima volta che vi ho incontrato era nel lontano 2016, per un contest liceale, il Pulse Contest, che poi avete vinto. Dal Pulse Contest a vincere Sanremo, la strada non è così scontata. Avete vinto tutto, tranne X Factor, dove però seppure secondi, siete stati vincitori morali. Qual è, se c’è, il limite di vincere sempre e arrivare così rapidamente al successo?
Damiano: Il fatto che abbiamo sempre vinto è ciò che si può percepire dall’esterno. In realtà tutti i nostri risultati sono arrivati da duro lavoro e tanto impegno. Le competizioni che abbiamo vinto sono soltanto dei riconoscimenti del nostro lavoro. Per noi non sono tanto importanti le classifiche o la competizione, quanto il pubblico, il rapporto che abbiamo con il pubblico e il feedback delle persone.
Il vostro percorso vi ha portato anche tante “polemichette”. Sorvolerei sull’ultima dell’Eurovision, molto pretestuosa. Però direi che è molto “rock” dare fastidio. Credo che se non ci fosse qualcuno che “rosica” non sarebbe neanche giusto essere rock.
Thomas: Più che altro ognuno ha il suo punto di vista. Non ci sono soltanto commenti positivi o negativi. Anzi, in realtà è proprio quello è il bello: al di là dell’essere o non essere rock, vai avanti per la tua strada, fai il tuo percorso.
Victoria: Tanto se stai facendo una cosa figa, la gente commenta ed esprime il suo parere, e a volte ti insulta. Da un lato è anche una cosa positiva.
Arriviamo a “Teatro d’ira – vol. I”. Già il titolo è abbastanza interessante. Sull’ira mi sembra chiaro di cosa si parla. Molte delle tracce mostrano questa sorta di insoddisfazione, come sono una sorta di rivendicazione nei confronti delle tante persone che ce l’hanno con voi. Se l’ira è manifesta, il teatro invece è simulazione della vita, ovvero una proiezione della vita nell’aspetto artistico. Come lo vivete questo teatro voi? E perché vol. I?
V: Per quanto riguarda il teatro, volevamo mettere in un contesto di arte e creatività una cosa che comunemente viene percepita come negativa, che è l’ira. Nel teatro vengono si mette in scena uno spettacolo e noi volevamo trasformare questi sentimenti in uno spettacolo dove lo spettatore, vedendo la nostra performance, la nostra musica, può immedesimarsi e di conseguenza sentirsi anche lui compreso, sollevato attraverso le emozioni e le cose di cui parliamo nelle nostre canzoni. Volume I perché chissà, forse… [ride, ndr].
Il pezzo con cui avete vinto Sanremo dice “siamo fuori di testa, ma diversi da loro”, posso capire di chi parlate quando dite “loro”, sono meno sicuro se essere dal lato del “noi” o del “voi”. Chi sono questi “noi”, questo “io” che parla nel disco? Sentite questo “noi” come generazione che ha bisogno di esprimersi, di parlare, di reagire?
D: Quello di cui parliamo, quello che scriviamo e tutti i messaggi che mandiamo derivano da esperienze nostre. Se questo nostro raccontare quelli che sono i nostri vent’anni e la nostra giovane età fa scattare nei nostri coetanei questo senso di appartenenza o in qualche modo diventa generazionale, tanto di guadagnato. Vuol dire che abbiamo espresso bene il nostro pensiero, però noi non ci autoconvinciamo di essere la voce della nostra generazione. Noi mandiamo dei messaggi, poi se la nostra generazione li accoglierà… insomma non decidiamo noi, deciderà la nostra generazione.
V: Noi parliamo della nostra esperienza, che sicuramente è la stessa che vivono molti altri ragazzi quando parliamo di questi argomenti contro le discriminazioni, contro le persone che cercano di criticarti, di affossarti. Queste sono cose che molti altri nostri coetanei vivono, quindi in questo senso è quello il gruppo di persone delle quali parliamo a favore, e contro quelli che devono rompe’ il cazzo, diciamo.
Si può dire che i vostri exploit siano il secondo posto a X Factor e questa vittoria a Sanremo. Mi sembra interessante come una band molto giovane sia riuscita a emergere musicalmente tramite un supporto televisivo. Questo vi ha portato anche delle critiche. Sentite un po’ il peso di dover dimostrare qualcosa in più, venendo da un contesto che era diverso da quello del passato?
T: La figata è stata il fatto di fare il proprio percorso partendo dalla “strada”, facendo quello che ci è sempre piaciuto fare ed entrare in un contesto televisivo portando noi stessi. Infatti la cosa di cui siamo più fieri e orgogliosi è il fatto di essere rimasti sempre trasparenti e aver continuato sulla stessa strada per tutto il percorso. Siamo arrivati a questo punto e la gente anche dall’esterno ha notato questa sincerità e noi ne siamo orgogliosi.
Ethan: In realtà questa cosa non ci tocca per nulla di base. Quando siamo usciti dal programma molti ci hanno anche mosso la critica che fosse stato il programma ad averci creati in qualche modo, cosa che non è vera. Noi eravamo quelli che siamo. Abbiamo semplicemente portato la nostra musica e noi stessi su un palco in cui potevano vederci più persone e farci conoscere da tanti altri.
V: Poi chi ci conosce lo sa che è da quando abbiamo quindici anni che suoniamo insieme e a modo nostro ci siamo fatti il culo. Ci siamo sempre messi sotto, cercando di sfruttare ogni possibilità anche all’interno di questi due programmi, Sanremo e X Factor. Anche lì è stato un percorso abbastanza stressante e duro, dove ci siamo impegnati al massimo per dare il 100%. Pensiamo che sia un po’ stupido avere pregiudizi. Questi programmi li abbiamo sempre vissuti come una vetrina. Siamo andati lì non a omologarci a quello che fanno gli altri o che è ritenuto consono su quel palco. Siamo andati lì portando noi stessi quindi alla fine noi li abbiamo “sfruttati” come mezzi per farci vedere da un pubblico ampio. Di conseguenza, pensiamo che sia più importante giudicare il contenuto più che dove lo vedi. Se qualcuno ha questi pregiudizi sui talent e sulla tv, secondo noi sono pregiudizi un po’ stupidi, che andrebbero superati.
A proposito di pregiudizi, la polemica di queste settimane è se siate o meno rock. Non si capisce bene cosa voglia dire, oggi, essere rock. In Italia la scena attuale è dominata da pop e indie da un lato, rap e trap dall’altro. Quello che mi domando è: voi siete veramente la rivoluzione? È il passato che ritorna? Dov’è il futuro e dove vi piazzate nel presente musicale attuale?
D: Secondo noi la musica è ciclica e in continua evoluzione. Parlare di generi nel 2021 è abbastanza sterile. Io mi limiterei a giudicare la musica, poi se qualcuno dice che non siamo rock, sopravviveremo e continueremo a fare le nostre canzoni non rock e la nostra vita andrà avanti. Adesso forse noi abbiamo la possibilità di riportare il genere in cima alle classifiche. Facciamo il nostro, poi se questo dovesse succedere e dovessimo diventare gli apripista di qualcosa di più grande sarebbe molto bello. Diciamo che non ci facciamo troppo questo tipo di aspettative. Cerchiamo di fare il massimo, poi quello che succederà all’esterno, succederà…
Uno degli aspetti che vi ha sempre caratterizzati è che siete dei bei ragazzi e questo è innegabile. Chiaro che la musica si è sempre associata a una certa sessualizzazione. Sicuramente è un aspetto che non solo ricercate, ma che va molto forte. Però spesso lo trovo limitante, per lo meno per quanto riguarda voi. Sembra quasi come se fosse più importante esser belli che esser bravi. Subite questa cosa di essere considerati spesso più belli che bravi?
D: Un po’ è una cosa naturale, il pubblico è molto attratto da quegli aspetti. Poi anche per gli articoli, fa molti click parlare dell’estetica, però noi vediamo i risultati. Vediamo che in tour le date vanno benissimo, i pezzi vengono streammati tanto, la credibilità cresce; quindi capiamo che quelli sull’estetica sono commenti della superficie. La gente apprezza la musica. Penso che questo alone di bellezza che ci si è creato intorno sia dovuto al talento, voglio di’, se suonavamo una merda nessuno ci diceva che siamo belli [ride, ndr].
L’altro artista che subisce critiche parallele a voi è Achille Lauro. Condividete infatti questo mondo glam, che un po’ vi contraddistingue. Forse non siamo abituati ad avere pop o rock star in Italia. Vi sentite un po’ rockstar almeno nell’anima? Sperate che possa essere di insegnamento per chi vuole affacciarsi al mestiere, magari qualcuno della vostra età?
V: Mah, diciamo che per noi sarebbe un po’ presuntuoso autodefinirci in questa maniera. Come abbiamo detto un sacco di volte, siamo semplicemente dei ragazzi che fanno ciò che amano e che esprimono le loro emozioni e le loro esperienze attraverso la musica. Se poi questo può portare dei ragazzi a prendere la chitarra in mano e dire “oh forse è figo anche suonare la chitarra e non solo rappare”, noi siamo più che contenti. Questo è indubbio, però non pensiamo di avere una tale influenza sulle persone, non è il nostro obiettivo, ma se questo le porta ad appassionarsi e a suonare, meglio di così non si può!
Siete giovanissimi, avete tutti poco più di vent’anni. Siamo in un momento storico che ci fa riflettere su cosa sia la musica in questo momento. Avete annunciato una serie di sold out, nella speranza di potervi vedere dal vivo. Avete mai temuto di ripensare al vostro futuro, al vostro lavoro, in questi due anni di blocco? Come influisce un lockdown nella carriera di ragazzi così giovani in un settore così fragile come quello dell’arte e dell’intrattenimento?
D: Facendo parte del mercato grosso, nonostante le restrizioni ci rendiamo conto di essere dei privilegiati perché comunque in qualche modo abbiamo continuato a lavorare e non abbiamo avuto problemi economici o cose di questo genere. Diciamo che per noi ha pesato più a livello di libertà lavorativa, è stato più difficile beccarsi per scrivere. Insomma, su quello abbiamo fatto un po’ di fatica però ci rendiamo conto di non poterne parlare come altri, perché sicuramente siamo stati colpiti meno. Ci rendiamo conto che i lavoratori dello spettacolo sono stati colpiti in maniera molto più pesante di noi. Ci rendiamo conto di essere in una posizione di privilegio.
Un ragazzo di vent’anni come dovrebbe ascoltare “Teatro d’ira – vol. I”? Cosa dovrebbe arrivargli? E secondo voi cosa dovrebbe arrivare a uno di trenta e più anni come me?
T: Ma il bello della musica è proprio questo: non c’è un come te lo aspetti o cose dovrebbe arrivare. Ognuno la ascolta e si parla attraverso le orecchie. A ognuno arriva una sensazione differente ed è quello l’importante.
E: Poi sul “come” andrebbe ascoltato: su un impianto grande circa 5 x 6 metri, fatto bene, con le cuffie da studio, sicuramente non con le casse del telefono [ride, ndr].
D: Oppure in macchina, con un impianto buono però, sennò lo butti!
Io l’ho sentito con un buon impianto: l’album ha un bel tiro, ha una bella botta, si vede che l’avete pensato per il live. Vi considerate ancora una band dal vivo, nonostante non ci siano più live?
D: Avoja. Vabbè ma questa è una situazione temporanea, nel mondo normale ci sono i live. Noi siamo assolutamente una band da live. Ma che te la fai a fa’ la band se non suoni live?
E: Siamo nati live, viviamo live e moriremo live.