Madame ha pubblicato il 31 marzo “L’amore”, il suo secondo disco.
– di Simone Spitoni –
È proprio vero, come diceva il buon Caparezza, che “Il secondo album è sempre il più difficile”. Meno tempo, più fretta, più aspettative, più paura e il rischio (se il primo album ha avuto anche un certo successo) di fallire miseramente.
Prima di iniziare metto le mani avanti, insieme alla mia onestà, e dichiaro fin dal principio che non sono affatto un fan di Madame e del suo primo lavoro.
Tuttavia… ebbene sì, c’è un “tuttavia”.
Come succede da almeno una decina d’anni a questa parte a chi fa musica (nel bene o nel male), anche nel caso della giovanissima cantante vicentina, sembra che al pubblico interessino di più gli aspetti superficiali del progetto musicale. Le polemiche, vere o presunte, diventano quindi il pretesto per celebrare o affossare l’artista in questione, in modo spesso del tutto acritico.
Lasciando stare l’episodio meno interessante di questo album, ossia il singolo sanremese “Il bene nel male”, la giovane cantante dimostra di avere qualche idea in più rispetto a molti colleghi e colleghe, e in parecchi brani riesce ad esprimersi in maniera musicalmente interessante.
Ad esempio in “Come voglio l’amore” e “Nimpha” grazie a suggestivi toni di bossa nova non siamo troppo lontani da certi brani più pop del grandissimo e troppo poco compianto Mango, anche grazie a testi non banali e abbastanza ricercati.
L’autotune è ormai un vero e proprio “sign’o the times” per la nostra Brutta Epoque, mi perdoni Prince – che Dio lo abbia sempre in gloria. Se non fosse per quello, si potrebbe anche definire “Il mio nuovo maestro” il brano migliore dell’album. Il pezzo si muove tra le atmosfere alla Hans Zimmer e quelle del recentemente scomparso Sakamoto: peccato perché la voce di Madame, seppure non perfetta e sicuramente migliorabile negli anni, non avrebbe bisogno – non dico dell’uso moderato – ma dell’abuso vero e proprio dell’autotune, che finisce certe volte per danneggiare brani che invece non ne avrebbero alcun bisogno.
Anche la ricerca sonora di “La festa della cruda verità” tra folk (italiano e non solo) ed elettronica è sicuramente da premiare. Meno interessanti sono invece episodi come “Donna vedi” e “Respirare” che forse potevano avere un senso una ventina d’anni fa mentre oggi si perdono nel conformismo di tanti brani ad essi simili.
A conti fatti, debbo comunque ricredermi: la giovane vicentina ha le carte in regola per fare della buona musica. Le servirebbe forse un po’ più di coraggio, oltre che la maturità che solo il tempo può dare. Solo così potrà confermarsi definitivamente – nella più felice delle ipotesi – con un terzo album, magari più musicalmente “rischioso”.
Anche perché i rischi alla fine pagano sempre.