Lyre è il progetto solista di Serena Maria Brindisi, artista milanese che ha da poco esordito con Broken Flowers, un brano ossessivo ed oscuro che ci introduce nel suo mondo di Queer Beauties, EP d’esordio uscito per Pitch the Noise Records che la candida ad essere tra i progetti più interessanti della scena musicale elettronica. Ne abbiamo parlato direttamente con lei.
Il 15 dicembre è stato pubblicato il tuo primo singolo dal titolo Broken Flowers. Di cosa parla questo brano?
Broken Flowers da una parte parla di un rito di passaggio fondamentale, di una rinascita attraverso l’esperienza dell’innamoramento, o meglio, di un desiderio cosi violento e nuovo che fa crollare il proprio mondo e la propria concezione di sé. Come quello dei primi veri amori o delle prime rivelazioni. Per me è stato il desiderio e l’ossessione verso certe bellezze femminili un po’ spietate e potentissime. Fragilissime e fortissime allo stesso tempo. Racconta del loro rifiuto, di uno sguardo che seduce, poi pietrifica e infine manda in mille pezzi. Dell’impossibilità di fermarsi, dell’impossibilità di fermare questa ricerca, in quanto quell’istante in cui la bellezza si svela, tutta, nel suo contrasto, la vertigine di quella rivelazione è l’unica cosa che dà un senso al proprio vissuto. La voce narrante, infatti, si arrende a questa sorta di incantesimo, a questo destino di “caccia impossibile” dettata da un desiderio profondo, che comporterà cadute necessarie. In realtà però questa sorta di ricerca infinita, mai soddisfatta, e questa resa infinita sono ciò che le permette di avvicinarsi sempre di più alla sua parte più pura, il fondamento della ricerca artistica più autentica. Uno stato costante di innamoramento.
Qual è la connessione tra il video e il brano?
La connessione tra i due è fortissima; il video nasce totalmente dai contenuti del brano. Io e il regista Davide Mastrangelo abbiamo infatti avuto una lunga corrispondenza prima di creare le immagini centrali, scambiandoci immaginari e riflessioni. In entrambi si racconta di una sorta di rito di iniziazione, o di passaggio, infinito. Nel brano è la caccia e la resa infinita, nel video è come se la dea spietata del desiderio, della notte e della verità col suo canto chiamasse la vergine pura e imprigionata (una sorta di Ofelia) per svegliarla e liberarla dal suo sonno eterno e anche questo accadrà circolarmente, all’infinito.
Quanto dobbiamo aspettare per un vero full length?
Penso che il prossimo album sarà sempre un EP, magari con più brani, ma sempre un EP. Dovrò aspettare ancora un po’ per poter uscire con un album completo. La ragione è molto semplice: preferisco investire su pochi brani ma lavorati al meglio che far uscire un full lenght un po’ arrangiato di cui non sarei soddisfatta. Per me la ricerca sonora è importantissima e prende sempre tutte le mie energie (anche economiche) e ora non sono nella posizione di potermi permettere di produrre un album che potrei ritenere valido da sola, ma ovviamente spero e lavoro, sempre perché questo possa succedere al più presto attraverso cura, pazienza, dedizione e magari anche nuovi incontri. Nel frattempo infatti continuo a studiare per migliorare le mie produzioni musicali e sono molto immersa nella scrittura di nuovi brani.
Che effetto ti fa riascoltare Queer Beauties? Lo senti ancora “tuo”?
Ho dovuto aspettare molto per poter uscire con questo EP, sopratutto a causa del COVID, che ha rallentato tantissimo tutto il processo che porta alla pubblicazione, quindi la trovo una domanda molto interessante. Senz’altro, come tutte le creazioni, una volta concluse è come se vivessero di per sé, autonomamente. Succedeva esattamente lo stesso una volta concluse le prove di uno spettacolo teatrale e iniziata la tournée. Era una fase importantissima. Lo spettacolo doveva crescere da solo. Quando lo riascolto da una parte lo apprezzo moltissimo, dall’altra rifletto su come oggi sarei più incline a indagare nuove strade, essendo io cambiata per forza, durante questo lasso di tempo. Però certo, lo sento ancora mio, e sento appunto che manca l’ultimo step per rendergli giustizia, che è appunto portarlo live, abitarlo con la me di ora, che è diversa dalla me che ha scritto i brani tempo fa. Riconnettermi profondamente con quelle parti di me e farle esprimere su un palco, per concludere il ciclo e poter mettere sempre più a fuoco una nuova direzione.
Sei attenta alle uscite discografiche? C’è qualcosa in Italia che ti piace particolarmente? Hai qualche riferimento italiano?
Sono attenta alle uscite discografiche degli artisti e delle artiste che amo di più, certo. Di recente sto scoprendo il lavoro dei Son Lux ad esempio. Parlando degli ultimi anni, In Italia mi hanno intrigata molto alcuni brani dei Nava, come Flesh, stimo molto Marianna D’Ama, sopratutto per i suoi live, e Ginevra Nervi. Ricordo che ho adorato tantissimo l’album di Christaux Ecstasy e non ho mai capito per quale motivo questo progetto stupendo si sia concluso. Probabilmente sarà stato ingiustamente non capito, ma per me comunque è stato uno dei lavori più interessanti e internazionali mai ascoltati in Italia. Mi sono piaciuti molto anche i lavori di L I M e mi piace molto anche il duo Clio and Maurice, raffinatissimi e stupendi da vedere live. Ho adorato certe produzioni dei Pashmak, che infatti mi hanno portata a contattare prima Antonio Polidoro e poi a scoprire Giuliano Pascoe. Poi ricordo anche di aver apprezzato molto gli Aucan. Mi aveva colpito anche Giungla per la sua energia potentissima e trovo qualcosa di interessante in gran parte degli artisti che fanno parte di Pitch The Noise Records. Però ho ancora molto bisogno di ricercare tra i gruppi dell’underground italiano attuale perché sono convinta che in Italia ci siano super artiste e artisti che purtroppo non riescono a essere supportati come dovrebbero per raggiungere il grande pubblico, a causa di un enorme problema culturale. Quindi vanno ricercati e ricercate con cura.
Potrebbe mai succedere di sentirti nel progetto Lyre in italiano?
Potrei includere delle parti parlate, forse… Potrebbe essere interessante, ho molto materiale a riguardo e amo l’italiano parlato, ma a livello di phrasing e ritmo non riesco proprio a contemplarlo nel cantato, in questo momento.
Chi o che cosa sono le Queer Beauties?
Le Queer Beauties per me sono e sono state delle rivelazioni molto importanti, che accadono nel picco massimo di un innamoramento, nella tensione più profonda del desiderio o anche semplicemente nel tempo sospeso di uno sguardo di curiosità o di attrazione. Sono stata sempre estremamente attratta dalle apparenti dissonanze e dai contrasti nascosti nei corpi, dal doppio, maschile e femminile, che vive in tutti noi, e dal modo in cui copriamo e cerchiamo di nascondere le nostre ferite, creando corazze imponenti, affascinanti e a volte estremamente eleganti. Ma nel momento in cui qualcosa fa breccia nell’armatura, come uno sguardo, o uno scatto, allora si rivela in parte quella che il fotografo Mustafa Sabbagh, da cui ho tratto molta ispirazione, definisce “hurting beauty“, la “bellezza che ferisce”. In quel momento s’intravede una verità, una nudità, un vissuto, una fragilità disarmante. Avviene una sorta di resa, qualcosa cede, cade, svela. Nella mia memoria, proprio come divinità antiche, queste bellezze svelate, a volte violente e ambigue, col tempo si tramutano in specchi, in cui ritrovare la propria immagine riflessa da mille angolature. In cui ri-conoscersi ogni giorno. L’aggettivo “queer”, inoltre, da una parte è usato per il suo significato di “strambo”, “dissonante”, che – rispetto a un mondo che tende sempre a dover normalizzare, definire e incasellare in modo soffocante – descrive provocatoriamente i corpi e le anime di cui ho parlato e che mi attirano di più, ma anche gli stessi quattro brani dell’EP per il loro suono e la loro struttura; dall’altra si riferisce proprio a bellezze del mondo “queer”, essendo il mondo di cui io faccio parte, da sempre, che ho abitato e vissuto, e in cui ho imparato ad esprimere ogni parte di me e a gioire delle mille sfaccettature che possono emergere nel momento in cui ci si libera delle gabbie interiori, che ci vogliono sempre “definire” e che portiamo dentro fin dall’infanzia.