Lo diceva, Gustav Metzger, creatore della auto-destructive art: “Distruggi e creerai”. Ed è lo stesso pensiero alla base del progetto Luminal, da Amatoriale Italia ad oggi. Distruggere ogni cliché, ogni stereotipo, fino al nichilismo musicale più puro. Noise, droni, feedback e solo un basso e una batteria per comunicare quanto e tanto più di un esercito di chitarre e tastiere. “Punk nella testa e non nella cresta”, i Luminal con Acqua azzurra, Totò Riina si spingono oltre ogni limite imposto dalla canzone pop e dal mercato e, nonostante ogni plausibile dubbio, creano un prodotto ancora una volta originale, unico. Merito di Alessandra Perna e Carlo Martinelli, autori dei brani, voce e basso con funzioni alterne.
AP: Il disco è arrivato in maniera naturale: la formazione basso-batteria-voce continua ad essere l’involucro giusto per quello che volevamo dire in questo disco; con l’esperienza di due anni di concerti siamo riusciti a realizzarla appieno.
Con questo disco abbiamo raggiunto il top di quello che volevamo fare. CM: Ci sono alcuni pezzi che nascono senza sedersi con la chitarra o provare con gli accordi, quasi in maniera mentale. In altri casi si partiva dalla canzone tradizionale, chitarra acustica e orchestra. Poi tolta l’orchestra bisognava riuscire a farlo stare in piedi. Lo abbiamo realizzato in tempi spaventosamente brevi, con alcuni pezzi arrangiati in sala di registrazione. Del mercato ci siamo dimenticati che esiste: se avessimo avuto le energie per pensarci lo avremmo fatto perché siamo persone venali, ma non abbiamo la concentrazione per fare queste cose.
Ma in un album dove la musica si regge sui suoni più che sugli sviluppi armonici, la carta vincente è sicuramente la batteria, grazie all’immenso lavoro di Alessandro Commisso, che da dietro le pelli dirige la band senza farla slittare nei pericolosi terreni della free-form. Un lavoro sostanziale e di peso, che dà struttura al disco tutto.
AC: Loro portano i brani e io penso cosa tirarne fuori. Immagina Alessandra che attacca il jack e fa “Onora il padre e la madre” e io devo inventarmi cosa fare da quello! Però a me piace lavorare così, solo aggiungere o sottolineare il senso del pezzo.
Acqua azzurra, Totò Riina è un’opera di concetto – art punk, vi piace? – già a partire dal geniale titolo: un perturbante accostamento tra musica e malavita, tra luce e ombra.
AP: Il titolo rappresenta questa dicotomia, il simbolo della cultura italiana: il buonismo nazional popolare insieme al male assoluto. Ogni persona è fatta di bene e di male, ci hanno fatto credere che le persone hanno solo qualità definite, sono solo “buone” o “cattive”, stupide o intelligenti. E questo lo usano per tenerci a bada e allontanarci gli uni dagli altri. La base dell’essere umano è la contraddizione: ogni cosa viene fatta sia in buona fede che in cattiva fede. Se riuscissimo ad accettarlo, riusciremmo a vivere la vita in maniera più reale e a comprendere quello che abbiamo intorno.
È lo spiazzante incipit del disco, “Professionale Italia”, a farci gradualmente entrare in una wasteland di rumori, voci confuse, alienazione, in un collage davvero atipico che lascia perplessi fin dal primo ascolto.
AC: È la mia “malattia” mentale: vado spesso in Calabria dai parenti e prendo questi “carri di bestiame” di terza classe e annoiandomi tantissimo finisco per registrare e campionare le scene assurde che accadono. Ho deciso di unire tutto e di immaginare una specie di vagone singolo dove iniziano a sovrapporsi tutti quanti.
CM: Alessandro ci ha proposto il brano e senza averlo sentito, in un momento di delirio, abbiamo deciso di aprirci il disco. Poi quando è arrivato il brano, mixato, superava i quattro minuti. Per me è figo perché crea l’effetto più importante: chi lo ascolta si domanda cosa stia succedendo. Poi è il pezzo più concettuale, quindi invece di partire col rock and roll partiamo confondendo.
I due linguaggi diversi, quello testuale e quello musicale, iniziano da qui e finiscono subito per sovrapporsi. Testi che non hanno la pretesa di esser poesia e diventano, forse per questo, quasi narrativa, storie verosimili di piccoli e grandi orrori. Storie che con un altro tessuto sonoro acquisterebbero tutto un altro senso, musica che si riveste di un carico semantico di natura espressionista.
AP: Scriviamo quello che proviamo e stiamo vivendo in quel momento. Diciamo che il nostro modo di scrivere punta a “studiare” la mente umana e vedere come si rapporta con l’esterno. Io dovevo venire a patti con dei fatti nella mia vita e nella mia famiglia, che ho esteriorizzato per ridimensionarli e comprenderli. Dall’altra parte un po’ di surrealismo è rimasto perché è sempre un buon modo per capire la realtà senza impazzire.
Mentre Amatoriale Italia si inoltrava nella superficialità del nostro Bel Paese, Acqua Azzurra, Totò Riina scava nel grottesco dei piccoli uomini e delle piccole donne che ci circondano, raccontando favole nere di disastro e disperazione. Dalla piccola provincia avvilente (“Greetings from Rossano Calabro (CS)”) all’assurdo de “La vera storia di René Guenòn” (decorata da splendidi fiati), non più scrittore ma pornoattore con la passione per i boschi e i seni di Monica Roccaforte. E un fil rouge, color del sangue, che percorre l’intero album.
AP: “Onora il padre e la madre” è una sintesi molto veloce di tutto quello di cui si parla nel disco. Ci sono tre brani in particolare a cui sono molto legata che sono “L’operaio della FIAT”, “Anna e il caldo che ha” e “Odio gli idealisti”, che sono collegati: in un pezzo si parla di mio padre, nell’altro di mia madre e nel terzo di un ragazzo sognato in una notte di grande esaurimento nervoso. I miei genitori sono stati l’esempio peggiore che abbia mai avuto nella mia vita. Si sono fatti del male e hanno fatto del male a me e mia sorella in quantità massicce; nonostante questo mi hanno insegnato il coraggio. E ti domandi allora come sia possibile. “Odio gli idealisti” parla di loro, di due persone che nonostante tutto quello che hanno vissuto e fatto sono riuscite a darmi qualcosa di buono, la cosa più importante: combattere anche se sai che perderai. Per questo si ricollega al titolo del disco, da una parte il combattere e dall’altra il non lasciarsi andare a formule vincenti.
Il lavoro rende schiavi e ci trasforma in persone brutte dentro e fuori, facendoci diventare pessimi esempi per chi vorrà poi distruggerci per prendere il nostro posto e ricominciare tutto daccapo. E così, le colpe dei padri ricadono sui figli.
AP: Mi ricordo chiaramente il momento in cui ho detto “non voglio essere così”, in terzo liceo, studiando Orazio e il famoso “carpe diem”. Una parte di me venne fuori, pensando a cosa mi stessero insegnando i miei genitori: presi a pugni la porta a vetri della mia stanza, episodio raccontato in “Il sonno del coyote” [da Canzoni di tattica e disciplina ndr]. Ci sono delle persone che grazie a Dio hanno la fortuna di capire. Tante altre no. I genitori educano i figli, per cui sei fortunato se i tuoi genitori ti rendono una persona intelligente e ti aiutano a realizzarti. Se questo non succede ci si può rieducare, come io ho fatto: i miei genitori sembrano usciti fuori da un film di Monicelli o da un libro di Moravia, mi hanno insegnato tutto quello che era sbagliato da insegnare. Ma ci si può rieducare da soli, per quanto difficile e faticoso.
Non c’è redenzione per gli sconfitti e gli alienati. Chiusi in un mondo piccolo e oscuro, senza nessuna luce se non quella dell’autodafé, un atto di fede persa e dimenticata, muoiono in un mondo post moderno che non ha mai ucciso Dio, perché quel Dio non è mai esistito. Quell’Io che cerca, scalciando e urlando, di emergere dal mare nero in cui si trova. Nessuna “acqua azzurra”, solo un mare di acido in cui sciogliere i corpi dei poveri bimbi cresciuti male e abbandonati a loro stessi. Eppure, in fondo, verso la fine, ecco a sorpresa apparire qualche spiraglio di luce: sembra accennarsi una salvezza – esclusivamente personale – in brani come “Correre nel buio” (ci credete se dico che ricorda gli U2?) e “Al Settimo Cielo”. Per poi frenare di colpo e sfumare nell’adagio conclusivo di “C’è solo un modo di imparare”.
CM: È come se all’inizio il disco fosse più mentale, per diventare emotivo con “Correre nel buio” e “Al settimo cielo”. Poi con “Odio gli idealisti” e “C’è un solo modo di imparare” tutto questo si scioglie, dal punto di vista musicale e percettivo, a metà tra il detto e il non detto, tra il vissuto e il non vissuto. A livello di costruzione volevamo arrivare fino in fondo alle cose più gravi e pesanti per poi entrare in una dimensione più personale e umana, a quello che non è semplice. È un disco difficile che chiede di essere riascoltato. Ancora adesso sto cercando di capire cosa cavolo abbiamo fatto, c’è tantissima roba dentro, complessa e contorta e al contempo spesso fruibile. Alla fine dell’ascolto l’obiettivo è di costringere l’ascoltatore a ricominciare il disco daccapo.
Acqua azzurra, Totò Riina è un disco coraggioso nel suo incastrare fantasia con l’Io autobiografico, nello smembrare il bell’ascolto nella violenza del rumore. Senza ipocrisia, propone un percorso – personale e universale al tempo stesso – per affrontare una realtà, la nostra, e assorbirla in noi. Noi, che non ci siamo accorti di non esser più bambini, ora adulti che cercano di capire cosa salvare e cosa tenere vicino.
AP: Questo disco era tutto quello che volevo realizzare. Adesso si può cancellare il passato e ricominciare tutto daccapo e fare altro. È una sensazione bella e pericolosa perché ti destabilizza. Però ci piace cambiare e non fare cose vincenti.
CM: Prima bisogna occuparsi della merda, bisogna andare fino in fondo a quello che non funziona per poi poter cercare una possibilità. Affrontiamo cose che nella realtà non dovrebbero avere importanza, cose stupide, irrazionali. Si dovrebbe poter cancellare tutto. Ovviamente non si può fare, perché siamo esseri umani ma bisogna arrivare fino in fondo per poi occuparsi di ciò che è reale e importante. Da salvare c’è la capacità di andare contro quello che è normale. È quello che ci rende esseri umani, utilizzare la coscienza per reagire e usare la coscienza e la razionalità per andare contro quello che ci è stato insegnato e che non è giusto e reale. Nella bruttezza si trovano dei lampi di bellezza e sono quelli che contano.
Ci vuole talento nel realizzare un prodotto artistico che colpisce corpo e mente dell’ascoltatore, che lo stordisce con la musica e lo conquista con le idee. I Luminal dimostrano ancora una volta di essere capaci di creare qualcosa di grande, distruggendo tutto il superfluo che ci circonda e ci confonde. E di cui non abbiamo davvero bisogno.
Riccardo De Stefano