– di Giuseppe Provenzano –
La giuria
Strettamente collegato alla nuova direzione artistica è l’argomento che riguarda la giuria. Intanto partiamo col dire che entrare in giuria non è poi così difficile: basta mandare un curriculum alla segreteria del Tenco. Chiaramente bisogna farlo entro un limite di tempo: le domande che arrivano, per dire, in prossimità delle votazioni si trovano in una posizione più complicata, perché è vero che il Club non si accerta se un giurato abbia o meno sentito tutti gli album – si rimette alla professionalità del singolo giurato – ma dargliene prova in modo palese non gioca certo in favore del wannabe giurato di turno.
Nell’accettare o meno un candidato conta soprattutto il nome: se ti chiami Luzzatto Fegiz o Dondoni o Laffranchi o Giordano, per dire, non c’è neanche bisogno di guardare il curriculum, ovvio che sei dentro! Che poi tu possa pure non capirci un cazzo di musica, quello è un altro paio di maniche, imprevisti che possono capitare.
Fino a qualche anno fa i giudici venivano chiamati rigorosamente dal direttivo, e a proporre alcuni nomi a De Angelis era un altro dei nomi comparsi in precedenza, Enrico Deregibus.
Ad ogni modo, ad oggi la giuria che vota alle Targhe Tenco conta qualcosa come trecentocinquanta nomi.
Oltre ai luminari di cui sopra, trovano posto fra gli altri anche gli onnipresenti Assante e Castaldo, Diego Bianchi, Andrea Delogu, Ilaria Staino (certamente pura e beffarda omonimia, ci mancherebbe), Enzo Gentile.
E, dulcis in fundo, lui: Michele Serra. Ovvero, la più alta, sentita, coraggiosa presa di posizione degli ultimi anni di Targhe Tenco.
Serra è la personificazione esatta di quanto il Club Tenco “ultima maniera” vuole esprimere: una sufficienza reazionaria mascherata da amorevole paternalismo e da falso progressismo.
Sta tutto lì dentro, il percorso artistico del nuovo Tenco, nella persona di Michele Serra.
Fra l’altro, nell’ultima edizione delle Targhe, dei trecentocinquanta potenziali votanti, a esprimere democraticamente il loro parere sono stati si e no duecento.
Questo perché essere giurati del Tenco è uno status quo, ma votare è una gran bella rottura di cazzo.
Figuriamoci ascoltare musica che non provenga da pianeti più catchy e paillettati.
Insomma, anche in questo caso ci si sta muovendo a grandi falcate verso un progressivo svilimento della canzone d’autore: permettere ad un Dondoni di avere diritto di voto su un disco di Piero Brega dovrebbe far ribaltare i tavoli e sbattere le porte. Ma evidentemente c’è gente che è contenta così, ed io non voglio certo deluderli, ci mancherebbe!
Sono elitario? No, vorrei solo che a maneggiare la canzone d’autore ci fosse gente che della canzone d’autore sappia quantomeno parlare e ne conosca le coordinate cronologiche. E non gente che sia lì perché è più figa o sta sempre sulla cresta.
C’è una grande differenza fra elitarismo e competenza.
Ultimo passaggio sulla giuria: riportiamo il voto palese, vedrete come sarà facile – per manifeste incongruenze – snellire il numero di giurati.
Il Premio Tenco a Mogol
“Mazzata con rintocco”, tanto per citare Fo, e “morte accidentale di un anarchico” è la consegna del Premio Tenco a Mogol.
E già lo stridore che mi provoca vedere Tenco e Mogol nella stessa riga è inimmaginabile.
Lo dico da subito, con estrema chiarezza: il Premio a Mogol è un insulto, uno schiaffo in faccia a cinquant’anni di storia del Club Tenco.
E non è per manicheismo spicciolo, ci mancherebbe. Né ho grosse difficolta nel dire che, se Battisti – un fuoriclasse assoluto – ha avuto un collaboratore geniale, quello lì è stato Pasquale Panella, non certamente Mogol.
Cito, però, una lettera datata 1966. Porta le firme di Gianfranco Reverberi, Sergio Bardotti, Piero Vivarelli, Lucio Dalla. E Luigi Tenco. Anzi, a dire la verità, mentre gli altri firmarono in ordine alfabetico, Tenco volle firmare per primo.
La lettera, indirizzata al direttore di Big, rivista musicale del tempo, si poneva in aperto contrasto con un editoriale a firma Sergio Modugno, strenuo difensore della cosiddetta “linea verde”, movimento che tentava di portare avanti forme di dissenso fatte di modalità espressive meno di protesta e più commerciali.
Fra i protagonisti di questa linea verde, manco a dirlo, Mogol.
Uno dei passaggi più belli di quella lettera, con cui i firmatari si schierarono a sostegno della “linea gialla”, recita così:
A questo punto poi un’altra domanda sorge legittima: perché dunque la linea verde? A cosa serve? E soprattutto a chi serve?
La risposta ci sembra abbastanza semplice: serve a chi vuole intorpidire le acque, o per cause bassamente pubblicitarie e comunque speculative. Chi ha orecchie per intendere, intenda. Le ragioni della nostra perplessità ci paiono a ogni modo molto giustificate.
Per questo le linee verdi, oltre a non interessarci, ci preoccupano in quel loro esplicito tentativo di porre freni e intorbidare le acque con fini che, quanto meno, appaiono estremamente poco chiari e proprio per questa estrema nebulosità possono confondere e fuorviare le idee dei più giovani.
Tenco e compagnia, con una lucidità disarmante, avevano capito tutto.
Ecco perché premiare Mogol è in totale antitesi con lo spirito originario del Tenco, basterebbe già questo.
A questo consistente punto iniziale si aggiunge anche un’intervista vergognosa (fosse l’unica!) rilasciata dallo stesso Rapetti qualche giorno fa, all’indomani del ritiro del Premio.
Ad una domanda di Marinella Venegoni su come abbiano fatto a convincerlo a farsi premiare al Tenco, lui risponde «Devono essere cambiati molto, in quella rassegna una volta c’erano i fioristi».
Il “fiorista” sarebbe Amilcare Rambaldi.
Lo squallore di una risposta del genere è talmente abissale che non se ne vede il fondo.
Solo due cose sono più squallide.
Un è la totale indifferenza di lacchè e cabotins di vario grado, che non fanno altro che lisciare il pelo al Tenco e genuflettersi in continuazione. E non serve a niente commemorare Amilcare nel centenario della sua nascita, né serve a nient’altro riempirsi la bocca di canzone d’autore, se poi si fa finta di nulla e non ci si indigna per puttanate del genere.
L’altra è la totale indifferenza del Club Tenco, che non ha nemmeno vagamente preso le distanze dalla uscita vergognosa di Mogol. Niente, né un comunicato, né un post, né un cazzo di niente, come se niente fosse successo. Ma d’altro canto, in questo caso, la colpa è solo e solamente nostra, mia e di chi, come me, si aspettava una qualsiasi reazione: non abbiamo ancora capito che la reazione sono loro stessi.
Personalmente, poi, continuo a chiedermi come si possa considerare poeta uno che non è in grado di riconoscere il lirismo dei fiori.
Andavano a caccia di artisti, anche menefreghisti
Artisti comunque, artisti ovunque e comunque
Un po’ meglio di questi poeti di oggi qualunque
Aedi del vuoto invocato e non mai esplorato
Cercavano uno per farsi contare una storia
Che fosse inventata o infuocata da antica memoria
Bambino, non devi toccare, giocare o anche fingere
Che questa qui, vedi, bambino è roba di Amilcare.
Paolo Conte, “Roba di Amilcare”.
BIBLIOGRAFIA
- Mario Bonanno, “Salviamo il Tenco dalle canzoni senza aggettivi”, su Blogfoolk del 30 aprile 2020
- Elisabetta Malantrucco, “Il Tenco e la canzone d’autore”, su Blogfoolk del 7 novembre 2019
- Elisabetta Malantrucco, “Quer pasticciaccio brutto delle Targhe Tenco”, su Blogfoolk del 29 giugno 2018
- Andrea Podestà, “Club Tenco, Enrico De Angelis lascia la Direzione”, su Il Pubblicista del 21 febbraio 2017
- Franco Zanetti, “Enrico De Angelis annuncia le dimissioni da direttore artistico del Club Tenco”, su Rockol del 7 dicembre 2016