– di Giuseppe Provenzano –
La nuova direzione artistica
E finalmente arriviamo al vero succo di questo excursus, il taglio netto con un passato fatto di cupi capelloni chitarreggianti, l’apertura verso il glorioso sol dell’avvenire.
Le dichiarazioni in merito di Sergio Sacchi hanno seguito sempre più spesso due binari paralleli: il primo è che la canzone d’autore sia ferma a Capossela; il secondo è quello della canzone senza aggettivi.
Ora, il punto è molto semplice: per poter parlare di nuove proposte artistiche, prima bisognerebbe conoscerle e seguirle. Se quella volontà manca a monte, possiamo tranquillamente chiudere baracca e burattini, rassegnarci tutti a parlare di Sangiovanni e, dopodiché, bere un bel bottiglione di assenzio a fondo bianco, cominciare a correre per casa e sperare magari di beccare qualche spigolo, risolvendo i problemi una volta e per tutte.
E questa è la soluzione più drastica.
Ne esiste una meno cruenta: farsi un culo quanto il traforo del Sempione e ricominciare ad ascoltare la musica che ci gira intorno.
Sembrerà strano, lo ammetto, ma si andrebbe a scoprire un panorama incredibile, con dentro così tanta bellezza da riempirci almeno cinque rassegne. Da Emma Nolde a Serena Diodati, passando per Narratore Urbano, Marco Castello, Alessandro Rocca, i Vintage Violence, Tuasorellaminore, Serena Alravilla e tanti, tantissimi altri.
Nel 2008, per dire, la rassegna ospitava le Cordepazze o gli Jang Senato, gente con nemmeno un album all’attivo, o giù di lì.
Negli ultimi anni un Fulminacci o un Motta non avrebbero trovato alcuno spazio, se non fosse stato per la vittoria come miglior opera prima. E questa non è un’idea personale o un preconcetto: basta guardare i cartelloni, sul sito del Club li trovate tutti.
Non sono le nuove proposte a mancare, è l’attenzione verso di loro che è quasi del tutto assente.
Dico “quasi” perché ogni tanto, poi, arrivano, totalmente inaspettati, dei picchi di genialità da pelle d’oca. Alla rassegna di quest’anno, quella conclusa qualche giorno fa, per dire, c’era ospite Lucio Corsi.
Lucio ha alle spalle tre dischi, di cui l’ultimo prodotto da Francesco Bianconi, una partecipazione a Musicultura ed opening act a Baustelle e Brunori Sas.
Però l’evidente scollamento fra il club e la musica che ci cammina accanto ha fatto sì che lo abbiano chiamato a suonare a Il Tenco ascolta, il format dedicato agli emergenti, come il primo degli sconosciuti, in una serata che vedeva la partecipazione straordinaria di Alberto Fortis e di De Gregori.
Il controsenso pauroso è che, ad un’altra data de Il Tenco ascolta, sempre di quest’anno, a fare da headliner c’era Setak – nome, fra l’altro, interessantissimo – fresco di pubblicazione del secondo album e certamente molto meno indicato di Corsi per fare da ospite speciale, ecco.
Il tocco di grottesco definitivo è che qualche giorno fa il direttivo vantava Corsi come una sua personalissima scoperta.
Buongiorno, principessa.
A fare il paio con quanto detto sopra c’è anche il fatto che, dice sempre Sacchi, non c’è nessuno, fra gli artisti di oggi, che sia in grado di appassionarlo.
E, in questo caso, la soluzione è semplice, rotonda: amici cantautori, non mandate più le vostre candidature, non provateci nemmeno a vincere la Targa. Ricambiate con la stessa moneta e snobbate chi vi snobba.
Un’affermazione del genere è offensiva nei confronti di chi decide di fare qualcosa che, visti i tempi, è pura resistenza. Non meritate un trattamento del genere, lasciateli pure nella loro torre d’avorio, non sanno che si perdono.
L’altro cavallo di battaglia della nuova strada intrapresa è, come dicevamo, quello della canzone senza aggettivi.
L’idea della canzone senza aggettivi, che è anche il titolo dell’ultima rassegna, cominciò a prendere piede già alla fine del 2019.
Poi arrivò il COVID, e con lui si arenarono – per poco – tutti i propositi rivoluzionari.
Propositi tornati fortemente in auge in questa edizione, la prima finalmente libera dal giogo opprimente degli aggettivi.
Questa ricerca spasmodica dell’assenza di aggettivi si concretizza con una maggiore fluidità, se così la vogliamo chiamare, di generi musicali.
A tal proposito sarebbe molto interessante far notare, sommessamente, sia chiaro, che il rock alternativo o il rap al Tenco ci erano già arrivati. Perché, come ho detto in apertura, la canzone d’autore non è un genere musicale, ed è naturale che trovi il suo sbocco preferito nella forma musicale che più le aggrada: che sia essa il rap di Caparezza e Rancore, l’artica glacialità dei Massimo Volume, il tiro sconquassante dei Ministri o la trap sbiascicata di Izi e Madame,
Conta il testo, più di ogni altra cosa.
Conta la storia che racconti.
Contano le parole.
E gli aggettivi.
Una canzone senza aggettivi è un controsenso in essere, un adynaton. Non esiste, non è immaginabile. L’aggettivo è una scelta poetica. Politica e poetica. Non ci sono state gabbie di alcun genere, mai. E non ci sono state semplicemente perché hanno sempre parlato, prima di loro, le parole.
Pretendere una canzone senza aggettivi, però, non mi stupisce affatto: è esattamente in linea con la nuova corrente dominante, quella del disimpegno. Un aggettivo, proprio per la sua natura politica, compromette troppo… Meglio mantenere un profilo più basso, più family friendly, ecco.
A riprova di questo, basti pensare che l’ultima volta che il direttivo ha utilizzato “canzone d’autore” lo ha fatto, cito testualmente, per «esprimere solidarietà all’artista Fedez per il coraggio dimostrato nell’associare su un palco così importante, qual è quello del Primo Maggio, la canzone d’autore alle espressioni di forte qualità laica e civile».
Ecco, quelle quattro righe di comunicato fugano, in maniera quasi definitiva, ogni possibile dubbio sulle future mosse del Club.