C’era una volta tanto tempo fa un mondo dove i musicisti non dovevano per forza andare in TV per realizzare i propri sogni. Bastava un garage, un amplificatore spinto al massimo e la fantasia. I Loveless Whizzkid sembrano usciti da questa cartolina di quel tempo che fu, dove la spontaneità, la passione e la vera voglia di suonare la fanno da padrone. Il primo album per il giovane trio di ventenni catanesi è come un tuffo in quel passato e allo stesso tempo un monito per il futuro.
We were only trying to sleep è un disco sfacciato, che non ha alcuna intenzione di dover per forza piacere all’ascoltatore giungendo a compromessi. È la perfetta riproduzione sul disco dell’anima della band. We were only trying to sleep è un disco notturno, (di)storto, psichedelico nel suo incedere a spirale, basato su chitarre taglienti, riff evocativi e melodie sbilenche.
Sembra di essere in un continuo stato d’ebbrezza, in una lunga notte d’eccessi. E il disco è fatto d’eccessi, spingendosi sempre un passo più in là del consueto, del previsto e del banale. Basta dare un’occhiata al minutaggio delle tracce per accorgersi che la volontà del trio è d’arrivare al cuore degli ascoltatori per altre vie: non brevi ed insulse marchettate pop, ma cavalcate elettriche ruvide e ipnotiche. Un sound figlio leggittimo di quel garage rock che parte dai sixties e che si tinge di psichedelia, ideale epigono della serie Nuggets che qui si veste col suono nineties: Sonic Youth, Pavement e Nirvana (di Bleach) da una parte e le odissee psichedeliche di Bardo Pond dall’altra. Un ritratto di famiglia con nonno Barrett in una foto su un muro e i fratellini Arctic Monkey accanto.
Solo con questo in testa si coglie lo spessore dei brani, strappandoli via da quella atmosfera da peyote: ecco allora splendere la lunga marcia iniziale di “Lovely ball of snot”, le sonorità misolidie ed esotiche di “Blue butted baboons”, il riff di “Jassie’s disappeared” tagliente come un rasoio fino al magnum opus dell’album, gli oltre nove minuti “The Golden Cockroach’s pinball song” che avrebbe commosso Lou Reed in altri tempi. C’è da dire che attendere al disco in una sola sessione può risultare ostico, specialmente ad orecchie meno preparate, visto che su nove brani solo tre rimangono al di sotto dei cinque minuti e la formula, per quanto efficace, incomincia a perdere di fascino verso la fine dell’album (“Cousin lizard” e “Hail to the ‘lil’ Gorilla”). Ma l’incredibile traccia finale, “Billie Joe’s colourful laughter”, spazza via ogni dubbio sul reale valore della band e del disco. Un’opera che si destreggia bene tra rumore, intermezzi strumentali e melodie atipiche, che fa dell’immediatezza la sua arma forte, spontanea, genuina, diretta, psichedelicamente acida. Un’opera d’altri tempi ai tempi nostri.
Menzione d’onore: Una delle prime tre tracce. Ora direi “Blue butted baboons”.
Riccardo De Stefano