– di Michela Moramarco –
Lorenzo Lepore pubblica il suo primo album Fuori onda ma in modalità ormai anticonvenzionali: la pubblicazione è avvenuta prima in formato fisico e solo dopo un mese, in formato digitale: dalla presentazione del disco nella cornice del Monk di Roma, avvenuta il 27 settembre, al 20 ottobre l’album si è insinuato nelle vite degli ascoltatori in un modo analogico o, come recita il titolo stesso, Fuori onda. Di Lorenzo Lepore avevamo già sentito parlare, per vari motivi, tra cui la vittoria del Premio Miglior Testo a Musicultura nel 2021 con la traccia Futuro. Ma oggi vogliamo scoprire le dinamiche collaterali che hanno portato un giovane artista a scrivere e pubblicare un disco così composito. Di seguito, il punto di vista di Lorenzo Lepore.
Partirei dalla fine in questa intervista, ovvero dalla scelta di pubblicare il disco prima in formato fisico e poi in digitale, che è coerente con l’immaginario Fuori onda. Come è nata questa idea, specificamente?
Ho deciso di proporre Fuori onda solo in formato fisico in una fase iniziale, ovvero dalla presentazione al Monk al 20 ottobre, per rispettare quella che è anche la scelta del titolo, per essere quindi un po’ fuori dal canone, un po’ come i vecchi tempi. A me piace pensare a questo disco come un concept, cosa che risalta ascoltando i brani tutti insieme, ma non era voluto. Il disco parla di situazioni al margine, fuori onda appunto: ci sono vari protagonisti che raccontano la loro scelta di dire la propria, anche a costo di andare controcorrente, contro la wave, con tutti i rischi che ne conseguono. Il disco, quindi, è stato lanciato in formato fisico affinché la gente lo comprasse e lo ascoltasse come si faceva un tempo. Credo che scegliere di ascoltare un cantautore comporti in qualche modo il mettersi in discussione ascoltando anche delle cose scomode o non immediatamente accessibili.
Fuori onda rimanda un po’ ad un’immagine in cui ci sei tu con la tua musica che ti muovi al di fuori del mare magnum di pubblicazioni discografiche alla ricerca della wave e della playlist editoriale. Che ne pensi? Il messaggio di questo album può essere legato ad un possibile ritorno dell’ascolto della musica in una dimensione offline?
Sì, sicuramente il rimando c’è. Ma più che al solo ascolto offline, anche al vivere più offline. Il disco narra anche dell’urgenza di tornare a parlarsi, commuoversi, discutere di questioni scottanti. Il disco vorrebbe scavare nel profondo, proporre un distacco dalla frenesia tanto richiesta dalla società. Arthur Rimbaud è uno dei brani che parla anche di questo nel raccontare come a un certo punto il meccanismo dei social crea assuefazione.
Si tratta di un disco d’esordio ma di te avevamo già sentito parlare in qualche modo, anche attraverso i tuoi primi singoli che hanno tracciato appunto i primi solchi di questa tua pubblicazione. Come sta andando emotivamente il lasciar andare attraverso il pubblico queste tue tracce?
La sto vivendo bene: ci sono dei brani di questo disco che camminano da soli da anni, che suono da anni. Vent’anni ha vinto il premio Lauzi, Finalmente a casa per il premio Amnesty voci per la libertà. Posso essere solo felice nel sapere che questi brani non appartengono più a me ma agli ascoltatori. Credo che una canzone appartenga a chiunque ne fa tesoro e riesca a immedesimarsi. Le canzoni servono a parlare alle persone, a consolare, ad arricchire. Mi auguro almeno, che sia così.
A questo punto citerei la serata al Monk, a Roma, in cui hai avuto modo di presentare il tuo album. È stata una serata di grande impatto. Ti aspettavi un risultato così? E come è andata con le aspettative che avevi magari anche riguardo te stesso?
La serata al Monk era una grandissima incognita. Il lavoro di comunicazione c’è stato ma un evento del genere è comunque un terno al lotto. Non avevo mai suonato in un posto così grande, da solo. Ma smuovere qualche centinaio di persone è stata comunque una sfida. Prima di salire sul palco, ho sbirciato dalle quinte ma poi è arrivato il mio produttore Toni Pujia che mi ha detto di non iniziare perché c’era la fila di persone in attesa di entrare in sala. Quando poi ho avuto modo di intravedere anche volti di persone non di mia conoscenza, ho pensato che forse sia successo qualcosa in questi anni. È stata una scena che mi ha ripagato di tanti sacrifici. Credo di aver trasmesso qualcosa, per me quella serata è andata molto bene.
I tuoi brani infatti sono profondi, studiati cantautorali e freschi. Non posso non citare tre influenze su tutte Giovanni Truppi, Daniele Silvestri e forse anche un po’ Bersani. Ti rispecchi in questi riferimenti?
Sicuramente sono tre riferimenti fondamentali, tra l’altro ho incontrato Samuele Bersani qualche giorno fa perché era a Roma per il suo podcast; inoltre ho la fortuna di lavorare con il produttore di Samuele Bersani che è Toni Pujia. È un grande riferimento per me anche dal punto di vista umano: è uno che dice sempre la propria. Poi sì, i tuoi esempi sono lampanti, anche dal punto di vista musicale. Ci sono sicuramente altri riferimenti ma a me piacciono i cantautori. Ho collaborato anche con Giovanni Truppi, è stato mio insegnante a Officina Pasolini. Infine, citerei anche Nicolò Fabi, come riferimento. Daniele Silvestri manca all’appello ma spero di poter aprire qualche suo concerto in futuro.
Il tuo album si apre con una traccia dal titolo Malincomia. È una scelta ambiziosa in una società sempre più social in cui bisogna ostentare felicità a tutti costi. Ecco tu te ne infischi di tutto ciò e canti con toni paradossalmente allegri di un sottofondo malinconico. Mi racconteresti di più di questa traccia?
Quella che tratto è una malinconia in veste allegra. Ma in generale tutto l’album è dolceamaro: questa traccia in particolare potrebbe essere considerata come una panoramica sull’album, quindi sulla mia vita. Non potevo non sceglierla come apertura dell’album. Infine, questa canzone apre i miei concerti, tutto qua.
Tornando al cantautorato, qualche tempo fa in un’intervista precedente ti avevo definito cantautore in divenire. Cosa sta diventando Lorenzo Lepore alla luce di questo album?
Sicuramente l’espressione è azzeccata perché il divenire è una caratteristica propria di quest’album. Ci sono state varie trasformazioni anche sonore. Ma posso dire che questo album mi definisce per quello che sono oggi. Anche le dinamiche dei brani sembrano riprodurre un’onda, poiché si alternano tracce movimentate ad altre più tranquille. Ma insomma, nei prossimi lavori mi piacerebbe continuare a sperimentare.
Quali sono le tue considerazioni finali dopo questa chiacchierata?
Vorrei dire che sono molto orgoglioso del featuring con Alessio Bonomo, Ci avete rotto è l’ultima canzone scritta dell’album, a differenza delle altre, tutte autobiografiche, questa si pone come una sorta di riassunto generale del disco, quasi un brano apocalittico che ha molto da dire sulla mia musica in generale.