Dopo i Dandy Warhols a farci viaggiare sulle sonorità psichedeliche del Roma Psych Fest al Monk sono stati i Toy. Per chi non li conoscesse, oltre a consigliare di rimediare immediatamente a simile lacuna, sono cinque ragazzotti londinesi, aspetto imbronciato, attivi dal 2010 con tre album alle spalle e un’ottima collaborazione con Natasha Khan (Bat for Lashes) dal nome Sexwitch. In giro si trovano varie etichette che cercano di descriverli al meglio, kraut rock, musica psichedelica, post punk. Con il terrore del cliché sempre dietro l’angolo, i Toy hanno smontato pezzo per pezzo ogni dubbio che si poteva nutrire nei loro confronti. È stato un concerto intenso, grazie alla presenza scenica della band sul palco, miscela di personalità differenti e ben combinate, e alle sonorità intricate, ipnotiche e lisergiche. Una sezione ritmica di stile e d’aspetto hard ‘n’heavy ha pulsato senza tregua sostenendo i lunghi viaggi fluidi e vorticosi dei sintetizzatori e le lunghe code finali affidate principalmente al lavoro delle due chitarre i cui suoni classici sono stati stravolti dalla più tipica effettistica richiesta dal genere. Tom Dougall, voce del gruppo, un ibrido tra Brian Molko e il nostrano Francesco Motta, è un polo magnetico, carismatico e degno front man di una band che sa dimostrare un’ottima capacità espressiva e d’esecuzione tanto su disco quanto live.
Un’ondata psichedelica che ha totalmente sommerso il pubblico, inesorabile e agitata, urgente e ben ponderata.
Il pubblico, attento, ha seguito con attenzione e trasporto ogni singolo istante di questa lunga celebrazione psichedelica dei Toy. E, forse, se proprio vogliamo trovare un piccolo difetto dell’esibizione (rientra pur sempre nel nostro sporco mestiere) possiamo dire che di celebrazione si è trattato. Bellissima, per carità. Ma ben studiata e con poco spazio lasciato al caso. Si potrebbe usare anche il termine improvvisazione, ma forse è un po’ troppo.
Una nota di merito va anche ai nostri Neon Forest che hanno aperto il concerto dei Toy. Meno moderni e forse ancora un po’ troppo “accademici”, ma pur sempre in grado di dimostrare uno spessore compositivo e sonoro davvero interessante, specialmente nell’affrontare un certo tipo di musica che, semplificando un po’, in questo momento in Italia non trova poi così tanto spazio.
Gianluca Grasselli