Se qualcuno di voi ha pensato come me, che alcune chitarre del disco Taking care di Livia Ferri sembrano registrate in un bagno, potete posare le chiavi di casa e disdire la seduta dallo psicologo: ci avete visto giusto.
Alla base dell’opera c’è stata infatti la ricerca di un suono autentico, intimo e naturale. E così, nell’epoca dell’editing e dei magheggi in studio di registrazione, la cantautrice romana ha scelto consapevolmente di registrare in casa (in salotto, per le scale e perfino in un lavandino) per riprodurre senza artifizi la sensazione degli ambienti domestici; come quando di notte passeggi di stanza in stanza imbracciando la chitarra e ogni volta che varchi una soglia, la casa reagisce e la tua percezione muta.
Proprio così mi piace immaginare che sia stato composto quest’album, nella solitudine casalinga di una fredda notte invernale, oppure col sorriso sulle labbra dopo la piacevole visita di un amico caro. In entrambi i casi, con addosso la sensazione di sentirsi al sicuro, protetti.
È esattamente così che ci si sente scorrendo le undici tracce del disco, dalle sferzate pop della prima “Hopefully”, fino al folk del meraviglioso trittico centrale composto da “Homesick”, “Pavlov” e “Cassius Clay”.
Taking Care è un album maturo, a tratti giocoso ma sempre consapevole; essenziale e minimale negli arrangiamenti ma al tempo stesso ricco di sfumature ed emozioni. La voce di Livia ci coccola e scherza con noi, graziosa e confortante. Ci ricorda di prenderci cura di noi stessi e delle persone a cui teniamo di più. Ci ricorda che la libertà non è data dai chilometri che percorriamo in giro per il mondo, semmai da quanto riusciamo a scavare dentro di noi, a capire noi stessi e farci capire. Ci ricorda che spesso in un viaggio, la sensazione più appagante è quella di sentirsi di nuovo a casa.
Matteo Rotondi (Discover)
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