– di Riccardo De Stefano –
Sembrava che almeno per questo 9 maggio ci saremmo risparmiati il ritorno del meme, e invece, sorpresa sorpresa, ecco spuntare il nuovo album di Liberato, chiamato in maniera leggermente didascalica “Liberato II”. Ma d’altronde se lo hanno fatto i Led Zeppelin, di chiamare il secondo album con un numero, potrà farlo anche Liberato, no?
La domanda principale che mi sorge, ascoltando forse frettolosamente questo secondo capitolo, è se possa esistere un prodotto di Liberato senza l’hype di contorno.
Ormai la domanda “chi è Liberato?” non ha più neanche valore, perché scemata la curiosità rimane l’indifferenza, tanto la questione si può risolvere in due modi soltanto: o Liberato è uno famoso o Liberato è un (semi?) sconosciuto. Fermo restando che l’ipotesi più probabile è che ci sia più di una persona dietro il progetto (benché voci di corridoio mi dicono che esista un Signor Liberato ben preciso) alla fine, il Grande Mistero degli ultimi anni si risolve semplicemente ragionando e capendo che, alla fine, ma a noi cosa importa chi sia Liberato? Cosa ci cambia se è Calcutta, Emanuele Cerullo o qualcun altro che magari non conosciamo? Niente, quello che conta è la musica e solo quella.
Il problema, infatti, è che spogliato di tutto l’hype, di tutte le manovre di marketing, dei video (bellissimi) di Lettieri, alla fine della musica di Liberato possiamo farne tranquillamente a meno.
Apriamo una seconda parentesi, intorno l’origine geografica del progetto: Napoli è un mondo a sé. Quello che accade a Napoli spesso rimane davvero a Napoli, e lì fermenta e si gonfia come magma che sì esplode, ma non va oltre l’area vesuviana. Tanti di quei progetti partenopei che dentro le mura amiche sono leggendari e celebrati, fuori si mitigano in una più o meno indifferenza di fondo che è facilmente spiegata: i napoletani quasi sempre cantano in napoletano.
Pensateci: il diritto di cantare in dialetto spetta solo a pochissime regioni, e oltre la Campania forse solo il romanesco e il siciliano assurgono a lingue degne di avere un proprio repertorio specifico e un discreto successo di pubblico. A parte pochissime eccezioni, tutte le altre regioni d’Italia non hanno alcun interesse (o successo) nel proporre repertorio in lingua.
Ma a Napoli si canta in napoletano, altrimenti non sei uno di giù (nota: ovvio che esistano progetti napoletani che non cantano in dialetto, ma l’incredibile quantità di progetti napoletani in lingua forse supera quelli in italiano).
E Liberato è uno dei pochissimi artisti che ha raggiunto la fama nonostante – o forse soprattutto – la scelta linguistica, anzi, l’identità totale del progetto. Liberato infatti ha incarnato l’anima mediterranea della città fondendola con le vibes elettroniche del resto del mondo, superando l’elettronica, il reggaeton, la canzona neomelodica e diventando un ibrido di tutto capace di arrivare al guagliuncello dei Quartieri Spagnoli tanto quanto alla glam girl di Porta Venezia.
Lingua che diventa, a nord di Marechiaro almeno, puro significante, suono che si presta benissimo a essere frainteso, non dissimile a un certo “engrish” che domina gli ascolti odierni. Per cui, ancora attualissimo e vincente.
Quindi il successo del progetto Liberato è fin qui comprensibile: una identità molto forte, resa iconica dall’immaginario visivo del talento del regista Francesco Lettieri, che ha trasformato l’assenza visiva di Liberato in un racconto per immagini dal sapore narrativo – creando di fatto la “maschera Liberato”, col suo giaccone e l’iconica scritta. Poi la creazione del rito collettivo, l’attesa della rivelazione nel giorno del Santo, quel 9 maggio ormai eletto a nuovo onomastico da celebrare con un’uscita discografica o l’annuncio di un concerto che sia.
Ma detto questo, che ci facciamo con “Liberato II”? Togliendo tutto quello che possiamo aspettarci?
Poco, perché quel gioco a cui speravamo di giocare poco, ormai sembra aver detto molto se non tutto. In altre parole, quando ti aspetti di essere stupito, non c’è molto di cui stupirsi.
Così, “Liberato II” è una nuova raccolta di brani ben scritti, pienamente dentro il cliché di Liberato – tutto fatto di Napoli, guagliuncelle napulitane e bassi scanditi e zompettanti – che aggiunge poco a quanto già detto. Perché alla fine la maggior parte dei brani ondeggia sulle stesse vibes, e se togli quella lingua di cui sopra, potrebbero essere canzoni normalissime.
Detto altrimenti, non sono sicuro che pubblicate in altri giorni e in altre formule, canzoni come “Nun ce penzà” o “Nunneover” avrebbero la forza di attirare l’attenzione dell’ascoltatore medio, prive di reali intuizioni musicali, sonore, liriche o melodiche. Easy listening senza grande coraggio, senza troppo da dire.
Con due eccezioni di rilievo però: “Partenope” apre le danze con le sue armonie partenopee, fuse benissimo nel sound Liberato, non lontano dall’ormai classico “Me staje appennenn’ amò”, ma fresco abbastanza da risultare ancora intrigante.
E poi il punto forte, almeno per il sottoscritto: “Cicerenella” è una vera e propria tarantella lanciata dai mandolini e poi schizzata all’estremo tra la dance e una trap, capace di spezzare l’ondeggiare del disco sulle stesse dinamiche e rubando la scena agli altri 20 minuti di disco.
Insomma, se e quando Liberato prende ispirazione dalle sue origini partenopee, senza limitarsi a usare il napoletano come espediente, i risultati sono davvero notevoli, altrimenti quello che rimane tra le mani è l’hype di un progetto che deve ripensarsi per il futuro, perché siamo tutti più grandi dai tempi di “9 maggio” e quello che resiste al tempo è e sarà sempre la Musica. L’hype lasciamolo a chi non ha niente da dire.