– di Lucia Santarelli –
“Nove maggio”, la provocazione che dà il via al culto. 9 maggio 2019, l’album. Sta pazziann’ ancora, Liberato, con un gioco di enigmi, di curiosità, di musica e di Napoli; e adesso, finalmente, con il suo primo disco omonimo. Era il 13 febbraio del 2017, quando su YouTube veniva pubblicato il singolo d’esordio di un cantante dall’identità ignota.
Tra indiscrezioni e voci confutabili, tanti si sono espressi sulla “questione Liberato”. Roberto Saviano tre anni fa ha scritto, in un tweet: “Non m’importa chi sia Liberato. Da giorni mi inietto nei timpani Nove Maggio e Tu t’e scurdat’ ‘e me. E ricordo”. Questo è, chest’è. Poco importa, dunque, chi si muova dentro ad una felpa nera, di spalle a chi cerca di dare un nome a uno sguardo e a una voce. Tutti noi sappiamo, in realtà, chi lui sia, anche grazie alle immagini dei video di Francesco Lettieri, con le storie che racconta, con la Napoli che ci fa vivere attraverso fantasie e misteri. Liberato è un po’ mare, un po’ Mergellina e un po’ Forcella, Capri, la vita dei vasci, l’amore per il D10S e per San Gennaro. È Intostreet e Je te voglio bene assaje, due punti di vista, uno maschile e l’altro femminile, di un’unica storia d’amore, da intendere come sequel dei brani Tu t’è scurdat e me e Gaiola portafortuna.
Sonorità elettroniche, bit, ritmi R&B, basi estremamente curate e suoni tipici della nuova scena musicale partenopea: i suoi brani hanno aperto una nuova strada sia al genere neo melodico, che al rap napoletano. La grandezza dell’artista sta anche nella costruzione di se stesso, in rapporto allo storytelling delle canzoni e delle clip. Perché le tracce dell’album vanno sentite e anche viste, per essere vissute. Il tutto rientra in un’architettura artistica ben studiata. Un’alternativa per cantare un’emozione, un vuoto dentro, l’assenza di colori intorno, un sentimento in bianco e nero: questo è Niente, un brano singhiozzato, così come l’idea di essere il nulla in rapporto al tutto, assenza di fronte a una mancanza. Dei ricordi, dei passi dei turisti, del mare, del panorama di Capri, di un cimitero, Liberato ci consegna voce e fotogrammi, gli sguardi fermi e a colori che spiano i sentimenti. Lui è tendenza, innovazione sperimentando in maniera arguta con la tradizione.
Non è un caso, infatti, che i video dei brani Guagliò e Oi Marì siano ispirati al genere artistico che sul fine degli anni Cinquanta rappresentò una rivoluzione, una svolta artistica, idealista e linguistica nel cinema: la Nouvelle Vague. Lo dimostrano l’essenzialità delle immagini, dei dialoghi, le scritte, l’anno 1966, il virtuosismo ed ermetismo delle scelte di regia. Anche Nunn’a voglio ‘ncutrà, dance, più provocante, più patinata, ha il suo tempo, il 1975, e il suo luogo, sempre Capri, come Tu me faje ascì pazz’, datato però 1993. Questi ultimi quattro pezzi sono allo stesso tempo episodi diversi di Rendez-vous e di epoche differenti. Unico è il filo conduttore, forse unico è Liberato. Questo è, chest’è. In miezz’ a via, a Napoli, a Capri, ovunque, sotto le nuvole e pochi passi dal mare. Ed è bello assaje.