Letteraturap passa per Roma: l’incontro con Murubutu
– di Roberto Callipari –
Murubutu è un artista molto particolare. Chi lo conosce, ha imparato ad apprezzarlo per i suoi testi, sempre in grado di trasmettere una profonda poesia dietro alla grande varietà di racconti che hanno proposto nel corso della sua carriera. Il suo impegno per il rap, per i giovani e per l’ambiente musicale e umano a trecentosessanta gradi è sempre stato chiaro, e nell’ultimo periodo si sta rendendo sempre più forte con un tour che lo porta sui palchi delle città italiane a parlare non solo di musica, della sua musica, ma anche di letteratura e racconto, e di come questi due mondi artistici, il rap e la prosa, appunto, siano due ambiti più connessi di quanto non si pensi. Abbiamo l’opportunità di approfondire meglio la questione in occasione del suo passaggio per Roma dove, a piazza Sempione, prende parte al ricordo di Ugo Forno, giovane partigiano che ha perso la vita sulle rive dell’Aniene in un’azione atta al rallentamento delle operazioni dell’esercito tedesco.
Letteraturap sta portando il tuo lavoro in una nuova dimensione, in un maniera che però lega il tuo lavoro nella sua globalità.
Sì, mi coinvolge principalmente in quanto artista, ma anche in quanto docente, perché ha un piglio decisamente divulgativo, risentendo un po’ della mia deformazione professionale a trasmettere contenuti che possano emancipare, in qualche modo, chi mi ascolta. E quindi sì, c’è un po’ di tutto: c’è prof Mariani (ride, ndr) e c’è anche Murubutu. Però c’è l’unione di due grandi passioni: la prima è la letteratura, la narrativa nello specifico, e la seconda è la musica, a dimostrazione di quanto in realtà non siano due cose così distanti e a dimostrazione di come questo genere, così diffuso e amato dai giovani, possa trasmettere contenuti più concettuali, e non solo far evadere e divertire, che non c’è niente di male, ma ha anche potenzialità superiori.
Qual è il bisogno che sottostà a un lavoro del genere e a chi si rivolge Letteraturap?
Si rivolge in realtà a tutta quella fascia d’utenza che è interessata, ed è molto trasversale, a cogliere questo nesso fra due mondi che sembrano essere così lontani. Fra queste persone ci sono quindi sicuramente gli insegnanti, per cui ho fatto anche dei corsi di aggiornamento in collaborazione con la Biblioteca di Reggio Emilia, di Lecce e anche in altre città, che vengono perché sono interessati a cogliere quella che può essere la strategia didattica per trasmettere contenuti in altro modo; ma ci sono anche gli studenti, tutti coloro che semplicemente sono interessati a capire come un medium diffuso tanto quanto il rap possa essere anche uno strumento educativo.
Un talk, ma anche uno show in cui si parla di musica e si fa musica: siamo nell’epoca delle commistioni?
In realtà le commistioni ci sono da sempre. Io vengo dagli anni novanta, che è quando è nato il crossover, quindi…però sì, c’è un po’ di musica ovviamente, perché è la dimostrazione pratica di come alcuni contenuti possano essere trasmessi musicalmente. Non solo teoria, ma anche pratica.
Visualizza questo post su Instagram
Il rap è stato spesso stigmatizzato negli anni, per quanto tutta questa nuova e diversa esposizione sembra stia mutando la percezione che ne ha la gente. Da rapper, qual è la tua percezione attorno al genere e del genere da dentro in questa fase?
Il rap è sempre più diffuso, e questo fa sì che ci siano tante letture diverse. Possiamo dire che i numeri più grossi li fa comunque una versione più leggera del genere, diciamo così. Io non so se sta cambiando qualcosa ed è un dubbio che ho su tante cose in questi tempi, e non so se succede perché c’è una maturazione generale, un’esigenza generale di un rap più evoluto o se perché il mercato è così saturo di leggerezza che anche nel mainstream si ha sempre più bisogno di testi impegnati, però un mutamento c’è, è palese.
Nel corso del tempo il rap ha dato dimostrazione di grande salute, sapendo anche spesso cambiare pelle sulla base di quelli che sono i tempi e i temi, anche se alcune barriere non sembrano ancora del tutto abbattute, pensiamo ad esempio a quella di genere che vede le donne, in maniera globale nella musica, in minoranza. Pensi che esempi come il tuo possano smuovere qualcosa in tal senso?
Secondo me il giudizio sulla presenza femminile va un attimo attenuato, nel rap quanto nel mainstream, perché delle cose stanno cambiando: guardiamo il successo di Anna Pepe, che è una donna che macina bei numeri. Che poi ci sia una proposizione della donna sempre in termini molto sessualistici è un altro discorso. Però ci sono esempi molto vari: penso ad esempio ad ELE A o ad Alda, che fanno un lavoro totalmente diverso, in controtendenza. Poi se pensiamo al rap anni Novanta o Duemila non era così, adesso di donne ce ne sono molte di più e non possono che crescere. Nel piccolo, un lavoro come il mio, vuole aiutare a cambiare alcune cose, e forse stiamo andando nella giusta direzione. Il fatto che mi chiamino spesso organizzazioni e manifestazioni culturali, tipo il Festival della Filosofia o il Festival della lingua patrocinato dalla Treccani, sono tutti riconoscimenti del fatto che il rap può essere un genere con una dignità letteraria, e che quindi ha contenuti da esprimere. Anche se non a livello macroscopico, questo contribuisce a modificare l’immagine del rap, per quanto nulla toglie che si rischia di essere strumento, ogni tanto, anche di campagne attraverso le quali le istituzioni tentano di svecchiare la loro immagine.
Siamo qua per il ricordo di Ugo forno, esempio di impegno per la comunità. Con i dovuti distinguo, cosa ci insegna un’esperienza del genere? Qual è il messaggio per noi oggi?
Chiaramente, nonostante la differenza di contesto, il grande valore che ha l’impegno. Il fatto di contribuire così tanto ad una causa collettiva, anche se chiaramente il contesto di guerra muta profondamente le persone e le considerazioni da fare, dimostra che non esistono limiti di età o di pensiero, e che se la causa conta si può e si deve provare tutto, indipendentemente dai propri strumenti e dalle proprie possibilità di partenza. Credo che questo sia il grande insegnamento che, ancora oggi, ci trasmette la vicenda di Ugo Forno.
Cos’è l’impegno per te e cosa vuol dire?
Innanzitutto è farsi delle domande, fare ricerca e di conseguenza anche prendere una posizione che sia anche autonoma e critica, anche verso se stessi. Non deve per forza essere accodarsi e partecipare a delle battaglie molto partecipate, perché poi rischia di essere una gara d’appartenenza, ma un primo passo può essere già creare e cercare delle norme etiche che ci mettano davvero in discussione con l’ambiente circostante. Mettersi in gioco rispetto alle convinzioni comuni e anche rispetto alle mie convinzioni di partenza.
Il tuo ritorno sui palchi dell’ultimo periodo avviene in delle modalità a dir poco particolari: il talk ma anche il tour con Moon Jazz Band. Cosa sta cambiando nella vita artistica di Murubutu e cosa dobbiamo aspettarci, a questo punto?
Quello della Moon Jazz Band è un progetto parallelo che mi solleticava da tempo e che grazie allo Sghetto, un locale di Bologna gestito da alcuni miei amici, finalmente prende vita. Siccome in quello spazio si fa e si è fatta spesso improvvisazione e sperimentazione jazz, e siccome era tempo che mi stuzzicava l’idea di provare una contaminazione fra il mio mondo e il jazz, mi sono detto che era il momento giusto, andando anche un po’ contro la tendenza che vede il rap fondersi e proporsi nel rock, molto spesso, in casi come il mio. Comunque resterà un progetto parallelo. Io sto lavorando al nuovo album, che spero veda la luce nel 2025.
Visualizza questo post su Instagram