– di Giuditta Granatelli
e Giacomo Daneluzzo –
Leonardo Angelucci, classe 1991, originario di Roma, è un cantautore, chitarrista e produttore. Diplomato al CET di Mogol come tecnico del suono e autore di testi, dal 2017, anno in cui ha intrapreso la carriera solista, ha pubblicato due EP e un album; è attulamente direttore artistico dell’etichetta Free Club Factory e ha scritto un romanzo intitolato Luna, ovvero Nessuno. La sua ultima fatica è il l’EP “Manifesto Canzoni”, prodotto da Giorgio Maria Condemi e Gianni Istroni e uscito per Goodfellas.
L’abbiamo incontrato al MEI in uno scenario molto particolare: appena prima che dovesse esibirsi sul Palco Giovani, infatti, ha iniziato a piovere. Ma l’artista non si è perso d’animo e ha iniziato a suonare sotto ai portici faentini, esibendosi in acustico con un repertorio di brani suoi e cover, facendo sì che lo spirito della serata non si spegnesse e intrattenendo il pubblico, radunatosi con lui sotto lo stesso portico.
In seguito a quest’avventura – e alla sua esibizione, che è regolarmente avvenuta quando ha smesso di piovere – abbiamo deciso di intervistarlo: ecco che cosa ci ha raccontato!
Com’è andata la serata, nonostante il disagio della pioggia? Si può dire che sei stato la firma di questa serata.
Bene, dai. Lo spirito improvvisazione ci ha portato belle vibes, come sempre: ci siamo messi sotto i portici e poi abbiamo anche suonato qualcosa sul palco. Già essere qui, incontrare tanti addetti ai lavori, colleghi musicisti, suonare, parlare, cenare o bere una birra insieme… È già un grande segnale per la ripartenza della musica indipendente in Italia.
Hai iniziato il tuo percorso solista dopo aver militato in almeno un paio di band. Che differenze ci sono tra la dimensione di un gruppo e un progetto solista, per te?
Le differenze sono più che altro relative alla direzione artistica, allo stabilire la linea editoriale di un progetto. Nel mio progetto solista sono io che decido dove andare a parare con produzioni, musica, live… Invece in un gruppo è come se fosse una micro-democrazia, dove il parere di ogni membro è importante, dall’arrangiamento in sala prove, all’uscita del prossimo disco.
Sei già stato ospite al MEI. Com’è cambiato, nel tempo, questo festival?
Ho due bellissimi ricordi delle mie partecipazioni qui al MEI. Uno era su un palco chiamato Ring Stage, un palco aperto su ogni lato e il pubblico poteva girare intorno guardando ogni musicista della band sui vari lati del palco. Un’altra volta ero qui per la mia vittoria a un contest su Lucio Battisti, insieme ai Lato B e a Leo Pari in un tributo a Lucio Battisti. Ogni volta ho visto fiumi di gente, un’organizzazione impeccabile, la possibilità di incontrare tantissime persone e anche di scoprire nuove opportunità, il tutto in un solo weekend. Queste cose secondo me sono rimaste; è ovvio che ci sia un po’ di difficoltà a ripartire, per via di tutte le normative COVID. Ma lo spirito secondo me non è cambiato, da musicista e da partecipante, neanche nell’organizzazione. Anzi, ho l’impressione che si cerchi sempre di migliorare e di modificarsi per stare al passo coi tempi. L’esempio perfetto è proprio quello della pioggia sul palco al momento di salire e l’istinto di mettersi sotto al portico a suonare con le chitarre per le persone che erano lì a ripararsi dalla pioggia. È questo lo spirito, che è lo spirito che abbiamo noi, di non mollare mai, di cercare sempre di salvare il salvabile per ripartire alla grande e avere una nuova stagione musicale e creativa, ancor più grande di quella precedente.
A proposito di Lucio Battisti, anche in “Capigliatura” lo citi; che rapporto hai con questa figura?
È sicuramente una figura iconica, fa parte di quel gruppo di grandi maestri che tutti prendiamo come riferimento. Io sono sabino e abito a pochi chilometri da dove è nato e ha vissuto, Poggio Bustone, poi ho vinto questo contest su di lui e ho avuto la fortuna di studiare al CET [Centro Europeo di Toscolano, ndr], quindi ho avuto anche la possibilità di far ascoltare i miei pezzi a Mogol stesso e di ricevere da lui consigli e lezioni. Sento un certo legame con Battisti, sia geografico che personale e artistico.
“Capigliatura” parla di stereotipi: quanto ti hanno influenzato gli stereotipi dal punto di vista umano e artistico?
Io ho preso “Capigliatura” come esempio per il fatto che voglio trasmettere dei messaggi attraverso la mia musica, come la lotta al pregiudizio, che sia di genere, razziale, religioso o anche estetico. Nel 2021 non possiamo permetterci di avere mentalità retrograde e bigotte. Nella mia vita vivo quotidianamente facendo i conti con la capigliatura e l’aspetto fisico, con chi ritiene che assomigli al cantante x, che sia un drogato o un determinato tipo di persona per via della mia estetica. Un’altra canzone che ho scritto su questo tema è “Luoghi comuni”. È una cosa che combatto quotidianamente, cerco di dare il mio contributo facendo non solo musica-estetica ma anche portando avanti la bandiera della musica come veicolo di messaggi importanti, perché alla fine noi che ci occupiamo di questo siamo comunicatori.
A giugno è uscito il tuo ultimo lavoro, l’EP “Manifesto Canzoni”. Qual è il filo conduttore, il cuore, di quest’EP?
Si tratta di una raccolta di brani prodotti insieme a Giorgio Maria Condemi, poi usciti per Goodfellas e Purr Press. Ho iniziato a lavorare a queste canzoni nel 2019 e dovevano essere i germi di un nuovo disco, poi però a causa della pandemia abbiamo dovuto fermarci, abbiamo chiuso questi quattro brani e li abbiamo raccolti in un EP. Adesso c’è ancora la volontà di fare un disco, però quella è stata la chiusa di un particolare momento.
Hai partecipato due volte a Musicultura; cosa caratterizza questo festival rispetto ad altri eventi del genere? Com’è stata la tua esperienza?
Secondo me è uno dei festival più interessanti dal punto di vista del cantautorato, che consiglio a tutti i cantautori. C’è una quota sociale per partecipare e far parte dell’associazione, ma c’è un percorso molto bello per chi viene selezionato, che lo rende uno dei pochi contest capaci di portare veramente un arricchimento in termini di conoscenza di altre realtà musicali, ma anche in termini di autocritica, che vale la pena di fare. Musicultura è un’occasione per denudarsi della competitività, parlare di musica, confrontarsi con altri cantautori in un ambiente dove vengono giudicati i testi e gli arrangiamenti. C’è un vero interesse per la musica e non solo per le apparenze, per lo show e per la presenza scenica. È uno dei pochissimi contest che consiglierei sempre.
Sei chiaramente un musicista “da live”, come si è visto anche da quello che hai fatto stasera. In che modo la situazione del mondo dello spettacolo durante la pandemia ha condizionato il tuo rapporto col pubblico?
Non abbiamo avuto ancora una vera e propria ripresa al 100%. Mi ricordo estati in cui facevamo anche quaranta date, in tutta Italia. Era molto bello. Adesso ripartire ancora un po’ in sordina non mi ha permesso di delineare bene una nuova situazione della musica live, però l’auspicio è indubbiamente quello che ci sia un nuovo boom di concerti, di voglia di andare ai concerti, di suonare, di abbracciarsi, di sudare sotto i palchi. Io ho sempre vissuto a trecentosessanta gradi la dimensione live, perché essendo un chitarrista elettrico e avendo suonato sempre con la band vivo di quello. Molte persone mi dicono che le mie canzoni sono dieci volte più belle dal vivo. Spero di tornare a fare tanti, tanti, tanti concerti e di trasmettere così tanto da riversarlo anche, che ne so, in un disco live, come tante volte mi hanno consigliato di fare per immortalare quei momenti di energia pura. Quindi ovviamente il mio rapporto con il pubblico è la prova finale, nei live: oggi tutti possono fare i musicisti, tutti possono diventare fenomeni da social network, si può diventare virali con una minima cazzata, ma la prova finale è salire su un palco e saper coinvolgere le persone e per me è il momento più bello di tutto il percorso artistico.