– di Giacomo Daneluzzo –
Leiner Riflessi, conosciuto sempicemente come Leiner, classe 1997, nonostante la giovane età ha già all’attivo una carriera da ballerino, una partecipazione a X Factor con il brano “Tutto quello che ci resta” (2014), un Festival di Sanremo con i Dear Jack (2016), gruppo di cui fa parte fino al 2017 e con cui pubblica l’album Mezzo respiro, tour (con i Dear Jack) e due musical. Nel 2020 firma per l’etichetta GreyLight Records, con cui pubblica i singoli “Casa nostra” e “Messico”, usciti rispettivamente nel 2020 e nel 2021.
Ci colleghiamo su Skype per l’intervista; Leiner è un ragazzo solare e simpatico, con una grande competenza ed esperienza nell’ambito dello spettacolo. Tra i racconti della sua storia e della nascita dei suoi singoli, accanto a un’ammirevole sicurezza di sé emerge un lato umano di Leiner molto profondo, quello di un ragazzo che s’interroga su di sé e sul proprio percorso di vita, con una sensibilità che emerge ampiamente anche nei suoi nuovi singoli.
Ciao Leiner! Come stai?
Molto bene. Tu?
Non c’è male. Non vedo l’ora che riprendano i concerti!
Speriamo! Anch’io, puoi immaginare.
Ma partiamo con le domande. Nelle varie fasi della tua carriera, da quando hai partecipato a X Factor all’uscita di questi nuovi singoli, com’è cambiato il tuo lavoro? Come sono state queste fasi?
Ho sempre abbracciato le novità e soprattutto le opportunità. Nel momento in cui mi sono state proposte queste nuove avventure le ho sempre accolte a braccia aperte e sono sempre stato molto contento di quanto imparassi in ogni situazione che vivevo. Ogni esperienza è diversa e porta “il suo”. Sono particolarmente felice di tutte queste esperienze, ma la cosa di cui sono più felice è che tutto quello che ho vissuto mi ha portato a oggi, a ciò che sto iniziando a pubblicare. Spero sia l’inizio di qualcosa di bello! Sono tantissime esperienze, ma io le considero gavetta, un periodo di crescita, anche perché ero molto piccolo: quando ho partecipato a X Factor avevo sedici anni!
Che differenze ci sono tra lavorare con una band come i Dear Jack e da solista?
Ce ne sono diverse, a partire dal fatto che lavorare da solo – o meglio, da solista, visto che comunque non si è mai davvero da soli, devi sempre rendere conto a chi ti sta intorno – ti dà molta più libertà, rispetto a collaborare in cinque e cercare di avere un’unica idea per cinque teste. La creazione di una canzone, la produzione e la promozione sono più o meno la stessa cosa, la differenza è l’idea “concreta”, che si concretizza in cinque o in uno. Inoltre, al di là del fatto che facevo un altro genere, è diverso fare le prove in studio, suonare dal vivo e registrare con altri quattro musicisti e da solo.
Tu hai una formazione da ballerino. Pensi che ci siano dei punti di tangenza tra il ballo e la musica “da interprete”?
Sono sicuramente nato come ballerino: da piccolo volevo fare il ballerino. Poi, a un certo punto, guardandomi intorno, ho iniziato a scoprire artisti come Bruno Mars, Justin Timberlake e Chris Brown, che oltre a cantare ballano e creano un vero e proprio show. Avevo proprio quest’obiettivo, essere poliedrico sul palco, perché penso che sia tra le cose più belle che ci possano essere. Il nesso poi tra il ballo e la musica c’è, perché si tratta sempre una forma di espressione e comunicazione. Forse il canto è più diretto: l’emozione arriva dalle parole. Con il ballo è il tuo corpo a trasmettere emozioni – che è una cosa altrettanto incredibile.
In effetti la tua esperienza nei musical Madagascar e Priscilla la regina del deserto è proprio l’unione di queste due forme espressive.
Quale miglior mondo per me per potermi esprimere a 360 gradi? Quella dei musical è stata un’esperienza bellissima, anche per quanto riguarda la collettività, il riuscire a collaborare con altri artisti sul palco, anche con persone che lo fanno da molti più anni di me. Ho imparato veramente tanto. Cantare, ballare, cambiarsi… È tostissima. Però il risultato è meraviglioso. La cosa che mi piace di più del musical è che quando fai un concerto spesso vengono prevalentemente le persone che ti seguono, i tuoi fan; invece nel musical il pubblico lo devi conquistare, perché non ti conosce, magari è la prima volta che ti vede in vita sua. E quindi ricevere tanti applausi alla fine del musical è una soddisfazione immensa, perché vuol dire che sei riuscito ad arrivare a quelle persone.
Questa ripartenza della tua carriera con i nuovi singoli la senti come una strada più tua rispetto alle esperienze passate?
Io penso che le esperienze che ho vissuto volessero avere questo fine: me in una carriera da solista. Se dovessi pensare a ciò che voglio fare direi: «Esattamente questo!». Sono molto contento del percorso che sto intraprendendo; mi sento fortunato, perché in un certo senso sto ripartendo come Leiner, un’entità “singola” che effettivamente non c’è mai stata. Però allo stesso tempo ho già un bagaglio di informazioni ed esperienze che mi aiutano, mi rendono più tranquillo. Non è così nuovo, diciamo.
Parlando di “Messico”, è un brano sulla difficoltà di costruire rapporti quando si ha paura di essere abbandonati e sulla necessità di ascoltarsi. Come sei uscito da queste difficoltà? Come hai trovato il modo di ascoltarti e di apportare dei cambiamenti?
È profondamente autobiografico. Il consiglio che ho ricevuto è quello di, ogni tanto, fermarsi: viviamo in un mondo così frenetico che non c’è mai il tempo di fermarsi e dire: «Ok, che cosa sta succedendo intorno a me?», ma soprattuttto: «Che cosa sta succedendo dentro di me?». Tutte queste esperienze sono state molto grandi per me. A diciotto anni mi sono ritrovato sul palco di Sanremo. E certe esperienze sul momento non le realizzi: sei presente, ma è come quando prendi una botta fortissima: il tuo corpo subisce un trauma e non realizza il dolore; la stessa cosa mi è successa con queste esperienze. Mi sento molto più consapevole, ora, perché mi sono fermato e ho preso coscienza di me stesso. Spero di fare il cantautore, nella vita, di cantare e soprattutto scrivere le mie canzoni. Per essere veri c’è la necessità di una propria verità, una propria storia. In queste esperienze non ero mai al centro della mia vita: mi piacerebbe raccontare la mia storia, in modo che le persone mi conoscano nelle mie sfaccettature.
I tuoi singoli, “Casa nostra” e “Messico”, riprendono le sonorità del “pop classico” ma anche quelle più contemporanee. Quali sono i generi o gli artisti che senti più vicini alla tua produzione?
Ho sempre ascoltato molta musica internazionale. Solitamente scrivo le canzoni in inglese, per poi tradurle, così che abbiano delle accortezze, soprattutto a livello canoro, tipiche della lingua inglese ma riprodotte nell’italiano, con una sonorità più internazionale. Ho molti artisti di riferimento, seguo un sacco di nuovi nomi che mi piacciono. Rispetto ad altri anni, in cui i generi erano molto definiti, ora c’è un insieme di contaminazioni che secondo me è meraviglioso: basti pensare sempre a Bruno Mars, Justin Timberlake e Chris Brown, artisti che sono sempre loro ma adottano delle contaminazioni meravigliose e un percorso artistico, un’evoluzione, che è il mio obiettivo.
Scrivi sempre prima in inglese?
La maggior parte delle volte sì. Con “Casa nostra” è stato diverso: avevo fatto questo giro di piano che mi piaceva (si gira rispetto alla webcam, si mette alla tastiera e suona il giro di “Casa nostra”, poi torna a parlare con me, ndr). Ero con un mio amico, col piano, e sono nate delle parole. Con “Casa nostra” avevo una base, ma volevo parlare di un tema specifico, quindi l’ho ragionato in italiano e le parole sono uscite, perché era un ringraziamento ai miei genitori per la mia adozione. Ho scritto una serie di parole e frasi che volevo dedicare a loro, avevo già in testa tutto. La maggior parte delle volte, comunque, scrivo in inglese.
Sei nato ad Apartadó, in Colombia, nel dipartimento di Antioquia. Che rapporto hai con questa tua terra d’origine?
Sono stato adottato a sei anni, sono arrivato in Italia e la mia vita è praticamente iniziata allora. Ho pochissimi ricordi del mio passato, quindi non mi sono mai associato alla cultura della Colombia. È dove sono nato e ci sono delle cose che ho assorbito negli anni in cui ci ho vissuto. È quasi una vita passata, per certi versi non fa più parte di me; è come se la mia storia avesse colmato a tal punto questa vita che mi chiedo: «C’è proprio bisogno di pensarci?». Ho iniziato subito a parlare italiano, mi sono, come si dice in spagnolo, acostumbrado alla cultura italiana.
¡Pero aun hablas español! (Traduzione: “Ma parli ancora lo spagnolo!”)
¡Claro! Sí, sí, claro que hablo español. Esta es la única cosa que me acuerdo: el idioma. (Certo! Sì, sì, certo che parlo lo spagnolo. Questa è l’unica cosa che mi ricordo: la lingua.)
Yo hablo un poco de español porque mi abuela es de Madrid y ella me habla siempre en español. (“Io parlo un po’ di spagnolo perché mia nonna nonna è di Madrid e mi parla sempre in spagnolo.”)
¿Hablas español? ¿Serio? ¡Que bueno! (“Parli in spagnolo? Davvero? Che bello!”)
(Chiacchieriamo un po’ in spagnolo prima di salutarci, ndr)
È stato un grande piacere, Leiner! In bocca al lupo per questo nuovo percorso e a risentirci.
Volentieri, quando vuoi. Grazie e viva il lupo!