– di Roberto Callipari –
Quello del cantautore è un mestiere che ha qualcosa a che fare con le grandi missioni. Scavare nella contemporaneità significa andare in cerca del senso profondo dell’esistenza, senza necessariamente coglierla, ma provando in ogni modo a tirarne fuori le sue strutture per aiutare ad illuminare la strada.
Un album che si inserisce perfettamente in quest’ottica, nei contenuti e nelle intenzioni, è sicuramente “Cronache di un tempo storto”, di Galoni, cantautore laziale che, giunto al quarto disco, ha deciso di fermare con delle istantanee alcuni momenti e aspetti di quello che stiamo vivendo, soprattutto per l’esigenza di raccontare le cose in un certo modo, quello che più gli appartiene.
Lo abbiamo raggiunto per farci raccontare meglio il punto di quanto ha esposto nel suo ultimo album, per capire appieno quale sia il lavoro del cantautore di oggi.
Da dove arriva il titolo dell’album?
Questo titolo arriva quando già avevo scritto un paio di brani su eventi che mi avevano toccato particolarmente, “Sui piani alti di un palazzo”, sul disastro del ponte Morandi e “Come il cobalto negli iPhone” sul naufragio nel canale di Sicilia del 2015. Poi con la pandemia è arrivato “L’esercizio fisico di piangere”, il mio lockdown, che è stato un po’ anche quello degli altri. Mi piaceva l’idea di affrontare questo nuovo lavoro con un approccio giornalistico. Poi sono uscite fuori le mie di cronache, più intime, personali che si incastravano perfettamente in questa storia comune e di smarrimento collettivo.
Com’è cambiato Galoni artisticamente negli ultimi anni?
Dopo un quarto disco c’è inevitabilmente una sorta di maturazione. Si sente l’esigenza di fare cose nuove senza essere ripetitivi, quindi bisogna non forzare la mano e aspettare le canzoni, non essere frettoloso, e infatti questo disco è uscito a quattro anni e mezzo di distanza dal precedente. Ho anche cercato di essere più ambizioso coi suoni, visto che ci abbiamo lavorato molto. Tuttavia dal punto di vista testuale sono sempre lo stesso, anche perché quest’album segue una linea che inizia già dal mio primo disco, ossia con un discorso narrativo, descrittivo della società e dei nostri comportamenti.
E arrivato a questo punto, al quarto disco e dopo una lunga carriera, come ti senti cambiato umanamente?
In qualche modo non sei davvero consapevole di essere cambiato, anche se nella vita di tutti i giorni cominci a comportarti in maniera diversa. Non nascondo che il periodo pandemico mi ha toccato profondamente, mi ha cambiato in alcune cose. Mi ha spinto a prendere scelte importanti che probabilmente non avrei preso se non ci fosse stato questa sorta di tempo sospeso. Sicuramente sono cambiato nelle relazioni, nella concezione del tempo, nel vivere un’esperienza in modo più approfondito, a dare spazio a cose che hanno un certo valore e un certo spessore. Però questo credo che riguardi un po’ tutti alla fine, chi più chi meno.
Cercando di avere uno sguardo più ampio rispetto alla varietà di argomenti del disco, sembra esserci un tema che percorre tutto l’album, ovvero una paura dell’attualità, dei tempi che stiamo vivendo.
È una paura legata soprattutto alle nostre fragilità, perché siamo in un tempo così pieno di avvenimenti, in cui la società è cambiata a causa di una tecnologia che l’ha completamente stravolta. Per cui sì, c’è una fragilità di fondo in questi tempi nuovi, perché a causa del Covid, ad esempio, abbiamo vissuto una esperienza a cui non eravamo preparati e nemmeno pensavamo che potesse succedere, ed è normale che adesso si vive in un mondo in cui non si sa cosa aspettarsi. Non avevamo ancora mai vissuto un vero dramma collettivo, e ora le nostre prospettive sono totalmente mutate. Per essere ancora più precisi, pensa all’insegnamento: sono molto legato alla memoria storica, e siamo in un periodo in cui ci troviamo a discutere subito di ciò che accade, ma fondamentalmente, col passare di pochi mesi e di pochi anni, gli eventi perdono completamente valore. Adesso io capisco che parlare del periodo pandemico è una rottura di coglioni, però è stato un tempo profondo, guai a non salvaguardare una certa memoria storica e soprattutto a non valutarla attraverso i filtri giusti.
Non abbiamo mai vissuto un dramma collettivo, ma c’è qualcosa che sembra essere ormai dilagante, ovvero un profondo senso di solitudine che, stando al tuo lavoro, racconti anche con una grande urgenza.
C’è la solitudine dell’uomo contemporaneo e allo stesso tempo c’è la continua ricerca di casa, ma non come la immaginiamo noi, fisica, piuttosto una sorta di spazio interiore in cui rifugiarci nei momenti di solitudine e fragilità. Se tu ascolti le canzoni c’è sempre un protagonista che ha a che fare con una casa, una dimora. Quindi è un concetto che torna, anche nella copertina ce n’è una abbastanza surreale, un po’ metafisica, raffigurata da Andrea Calisi, un illustratore italiano che ho conosciuto tempo fa e con cui è nata una bella collaborazione. Quindi sì, la solitudine ma al tempo stesso la ricerca di un luogo dove ritrovarci, che può essere un bar, un tram, un sentimento o qualsiasi cosa.
Un disco che sa essere molto introspettivo, anche con momenti di profonda tristezza, ma con un messaggio di speranza alla fine come Buoni propositi per l’anno nuovo.
Ma assolutamente. Quella è una canzone di grande speranza, a cui sono molto legato e che è nata in un momento particolare della mia vita, quando è venuto a mancare mio padre con cui io non ho mai avuto alcun tipo di rapporto, quindi ho avuto l’esigenza di raccontare questa cosa. Il finale di quella canzone è un po’ una liberazione, un invito a ricominciare in qualsiasi momento da una storia diversa. La canzone poi trae ispirazione dalla lettura, una decina di anni fa, di un taccuino di Woody Guthrie in cui raccoglieva trentatre buoni propositi per l’anno 1943, che è una fonte storica preziosa, che oltre a palesarci perfettamente il periodo storico, ci racconta la condizione di miseria e povertà di questo artista. Prendersi l’impegno di lavarsi i calzini, le lenzuola, i denti se ci sono, e poi ce ne sono alcuni bellissimi “aiutare a sconfiggere il fascismo”, erano gli anni della guerra, ma anche “stare in compagnia ma non perdere tempo”, o addirittura “scrivere una canzone al giorno”. Ci sono delle cose veramente illuminanti, e ricordo che quando ho letto questa lista ho appuntato i miei buoni propositi su un quadernino che poi mi è capitato fra le mani un paio di anni fa, allora ho buttato giù tutto quello che avevo in mente ed è venuto fuori il pezzo.
Tornando ai contenuti del disco c’è una domanda che volevo farti che è più una provocazione, visto che sei un cantautore che fa un certo uso della parola. In un periodo in cui siamo tanti e siamo tanti a parlare decidi di fare un vero album cantautorale, denso sì di musica, ma anche di parole e concetti: non si rischia di avere una sovrabbondanza di messaggi? Il lavoro del cantautore oggi non potrebbe anche essere quello di togliere?
Sì assolutamente, però io seguo quella che è la mia natura. Ciò che si sente nel mio disco non è forzato, non c’è nulla di forzato. E poi c’è il bisogno di raccontare, le canzoni nascono in momenti differenti, ci sono anche cose difficili da dire: io capisco che è un disco che ha tanto testo, però in questa narrazione io ho dovuto raccontare le cose così come ho sentito di riportarle, anche nei concetti, perché volevo un album narrativo. Il discorso non è parlare tanto o scrivere tanto, l’importante è che quel tanto che scrivi non diventi superfluo, inutile o messo a caso. È vero che si parla tanto, ma è anche vero che di ciò che ci diciamo o che sentiamo, leggiamo, quanto ci resta realmente e quanto buttiamo via? Che poi, anche a scrivere poco bisogna essere essenziali e sintetici, però spesso in questa società ci concentriamo spesso solo su quello che è il condivisibile sui social, questa o quella frase, mentre invece il cantautorato deve tornare a essere in qualche modo profondo e articolato, che abbia un senso sì musicale e melodico, ma anche un livello testuale che si possa considerare da cantautori, altrimenti li chiameremmo semplicemente cantanti.
In un disco così pieno di parole da dove arrivano gli arrangiamenti?
Queste canzoni le ho scritte in casa, la maggior parte nel periodo del lockdown. Gli arrangiamenti li abbiamo fatti con Emanuele Colandrea, con cui abbiamo prodotto il disco che ha visto l’apporto di altri musicisti, molti dei quali mi accompagnano anche dal vivo Andrea Ruggiero, Fabio Giandon, Giuliano Bastianelli, Valerio Manelfi, Alessandro Di Nunzio e Simone Nanni.
Quanto è importante la concezione del tempo nella tua musica? Penso non solo alla struttura dei tuoi brani, ma anche al fatto che ti sei sempre preso il tuo tempo per far uscire i tuoi lavori (ricordando che, ad esempio, questo disco arriva cinque anni dopo l’album precedente).
Sono dell’idea che le cose nell’arte non vanno forzate. Io sarei pronto a far uscire un disco anche l’anno prossimo o fra tre mesi perché le canzoni ci sono, però bisogna capire qual è il momento. La questione del tempo è sostanziale, perché è intrecciata con quello che uno vuole dalla sua carriera artistica. Purtroppo viviamo in un mondo digitale in cui la velocità è una cosa tremenda, che chiede continuamente agli artisti di far uscire cose, perché si dimentica subito cosa è già uscito e io sono sicuro, ad esempio, che qualcuno presto mi chiederà dei pezzi nuovi. Abbiamo proprio difficoltà nell’ascoltare e somatizzare i brani, nel renderli nostri, ma un artista non può subire questi tempi dettati dalla tecnologia e degli ascoltatori che ne sono schiavi, così come non può essere schiavo di certe etichette che gli chiedono di “esserci” sempre. Questa è una cosa che a me infastidisce un po’, anche perché io questo disco l’ho pensato proprio in questo modo, canzone per canzone, in modo che fossero legate a delle tematiche specifiche che potessero entrare nell’economia di un disegno più ampio che volevo mostrare.
Come senti sia cambiato il panorama musicale e la scena romana in particolare attorno a te?
Non ci crederai ma io ascolto pochissima musica, e in realtà conosco poco e niente. Però credo che la scena romana sia stata la capitale di un certo indie pop, negli ultimi anni, che era il centro anche italiano di alcune sonorità, e chi faceva cantautorato, un certo cantautorato, magari è stato un po’ offuscato, però va anche bene così. Anche se credo che le cose stiano cambiando di nuovo ora, per quel discorso della velocità costante delle cose. Adesso è possibile che un certo tipo di cantautorato riparta, come quello che era negli anni 2000/2010.
Secondo te qual è il lavoro del cantautore oggi?
Va ridefinito un po’ come figura in questi tempi. Quello di una volta non è quello di oggi, e una volta era proprio organico alla società. C’erano prima gli intellettuali organici che discutevano della questione sociale in maniera approfondita, anche dentro ai partiti, e anche i cantautori avevano in un certo senso a che fare con la società, non dico che tutti fossero impegnati, però erano quasi un’istituzione riconosciuta dal grande pubblico, anche un punto di riferimento. Oggi il cantautore vive uno spazio e una dimensione diversa che non è più quella, vaga in questo mare magnum di progetti e sonorità, e il suo pubblico e gli ascoltatori sono cambiati. Però credo che possa ancora dire la sua: penso che possa ancora raccontare i tempi,non per indicarci la strada, ma essendo il cantautore anche uno scrittore, deve avere l’abilità di raccontare la contemporaneità. Poi ripeto, parliamo di uno spazio che oggi è totalmente cambiato e di una figura che è cambiata e va ridefinita, ma non devo farlo io ma i musicologi. Però può essere ancora un punto di riferimento importante, che può dire e raccontare quello che succede, senza farsi ingannare da alcune leggi di mercato o dai followers, mantenendo una spontaneità e naturalezza, perché se poi un cantautore mette radici è difficile estirparle, rispetto a tanti progetti musicali che hanno la data di scadenza. Il cantautore è un evergreen e deve puntare a scrivere qualcosa che resti nel tempo, raccontando anche la contemporaneità, e non il presente, evitando il nuovo che sa di effimero, anche dal punto di vista lessicale. Il cantautore può essere ancora una fonte storica.
Mi è piaciuta molto, grazie