Il 23 gennaio è uscito “Escape to the Roof”: il disco omonimo che segna l’esordio rock della band.
– di Martina Antinoro –
Gli Escape to the Roof hanno pubblicato dieci tracce il cui scopo è far riflettere l’ascoltatore: ogni elemento di ogni brano è stato studiato per spingere il pubblico a riflettere. Inoltre, la band ha voluto eliminare ogni possibile vincolo all’apparenza: i membri del gruppo sono anonimi e non hanno divulgato foto. La musica è al centro e ci siamo fatti spiegare questa visione radicale direttamente da loro.
Il vostro disco è uscito ormai da un mese, quali sono i feedback che avete ricevuto?
Abbiamo raccolto molto entusiasmo un po’ ovunque. Addirittura un giornalista in Argentina ha scritto cose grosse tanto da metterlo nella lista degli album dell’anno sul blog della radio per cui scrive e recensisce. Oggi è più semplice farsi ascoltare in giro, con i mezzi dello streaming e della rete web, che non sono sempre da demonizzare a tutti i costi. Un grande lavoro è stato fatto anche da Gabriele Lo Piccolo e Anna Spica che curano il nostro ufficio stampa, per cui il disco è stato ascoltato e recensito in maniera abbastanza capillare. Un grazie infinito a tutti, siamo molto contenti. Certo, qualcuno ha anche storto il naso, ed è rimasto su posizioni critiche, ma è giusto che sia così: mai ci saremmo aspettati di avere il massimo consenso, e neanche ci piacerebbe probabilmente, ci sarebbe qualcosa di strano. Qualcuno ha anche detto che abbiamo un batterista un po’ troppo protagonista. Ci abbiamo riso su per mesi, con il massimo rispetto per chi l’ha detto, giuro. Accettiamo il parere di tutti con il massimo rispetto, senza risentimenti di nessun genere, perché molto semplicemente non siamo alla ricerca di consensi, quindi tiriamo dritto per la nostra strada a testa bassa, con buona pace di tutti, supporters e haters.
La sensazione che ho avuto ascoltando l’album è che il vostro intento fosse quello di spingere gli ascoltatori a riflettere e a non fermarsi all’apparenza. Cosa ne pensi? E se ti trovi d’accordo, com’è nato questo tipo di approccio alla musica?
Sì, è esatto, ogni singolo elemento, dentro e fuori dal disco, è stato progettato per stimolare l’ascoltatore/lettore alla riflessione, sui molteplici piani possibili, sonori, emotivi, concettuali, ma che sono tutti riconducibili alla stessa riflessione: l’apparenza non ci interessa. È un incoraggiamento a immergersi nei significati profondi di ogni cosa della vita, senza spaventarsi di cosa si possa trovare. Questo è l’approccio che ho sempre messo in ogni gesto artistico, per cui non è difficile declinarlo anche nella musica.
Una decisione interessante è sicuramente quella di restare anonimi e non divulgare foto. A cosa è dovuta questa scelta?
Volevamo fortemente che a parlare fosse solo il nostro gesto artistico, quindi la musica e tutta la materia di narrazione che ci gira attorno. La storia ci ha insegnato che dissociare la biografia dell’autore dall’atto artistico non altera la possibilità di fruire, in tutta la sua potenzialità, il messaggio che da esso deriva. Anzi, aiuta l’utilizzatore a individualizzare meglio e a interpretare il messaggio per quello che è oggettivamente. È l’unica maniera per fare diventare l’atto artistico arte collettiva, che è alla fine dei conti la massima aspirazione per un artista. Noi abbiamo deciso che questa era la strada giusta per la nostra cifra stilistica, e a dirla tutta, i nomi talvolta sono né più né meno che contrassegni per lapidi. Inoltre, era l’unica posizione da prendere per fugare, in modo definitivo, gli eterni dubbi dell’artista sulla propria opera: nessun compromesso, nessuna ricerca di consensi, nessuna critica o elogio con interessamento strategico. L’opera è lì, ed è esattamente come la vedete, e ognuno può farci quello che vuole, è consegnata per sempre alle cronache. Personalmente non sono mai andato alla ricerca di consensi, che, indubbiamente, quando arrivano ti fanno comunque sempre un immenso piacere, ma sono stato sempre un artista che si misura prima di tutto con se stesso, e poi con i grandi della storia, per cui questa scelta, che per alcuni può sembrare radicale, in realtà mi rappresenta perfettamente.
Anche la pubblicazione di un album in inglese non è stata una scelta casuale.
Come avrai notato, ci piace giocare con tutto. Certo, l’inglese è la lingua della tradizione rock, e ovviamente ci permette anche di chiudere un cerchio anche in questo senso, ma la tentazione di passare il limite anche nell’irriverenza linguistica è stata irresistibile. Una lingua è sempre materia in divenire, non è mai una codifica fissata per sempre, è in continua mutazione sia nel tempo sia nello spazio. A maggior ragione di questi tempi, in cui la lingua inglese è la lingua della comunicazione globale, e la si parla e la si frequenta con le tendenze sintattiche e idiomatiche tipiche della lingua madre di ognuno nel mondo. Io ho pescato a piene mani da questa tendenza, che è al limite di un utilizzo scorretto della lingua, mi rendo conto, ma da sempre la ricerca è soprattutto indagine su ciò che può essere sperimentato, e si pone come primo obiettivo di trovare il limite “invalicabile”, prima di tutto proprio per valicarlo, per giocarci, per ironizzarci sopra, per dissacrare o per consacrare, utilizzando meccanismi linguistici presi in prestito da altre lingue, compreso l’italiano, con buona pace dei puristi inglesi e degli accademici.
Il vostro album è destinato ad ascoltatori attivi, che hanno voglia di mettersi in gioco ed interpretare i significati: pensate che la musica odierna sia destinata prevalentemente ad ascoltatori passivi?
La musica da mainstream certamente sì, è ormai intrattenimento fine a se stesso. Ogni rigurgito del mainstream brama ascoltatori passivi, pensiamo ai programmi TV, alle produzioni cinematografiche in cui la politica si stabilisce le quote di partito: tot film di sinistra, tot film di destra; l’editoria, il mercato delle arti visive, e persino nello sport se alzi la voce ti danno -15 in classifica. Il mainstream ha bisogno di utenza passiva, debitamente intrattenuti, pasciuti, che consumano, che pagano le tasse, che votano, e poi crepano, preferibilmente prima del TFR. La musica non fa eccezione. Siamo in piena epoca di bispensiero orwelliano, e l’ascoltatore/lettore medio ideale è questo qui. Il problema è che la gente non se ne accorge, e compra tutto ciò che si dà loro in vendita. Ti pisciano in testa e la gente dice che piove. Anzi, oggi dicono che piove una pioggia diversa, più colorata finalmente. Un vecchio classico.
Sì, la nostra operazione è destinata ad ascoltatori/lettori attenti e rigorosamente attivi. Fin da adolescente sono stato oltremodo attratto dalla poetica ermetica e/o criptica. Concetto bellissimo è quello per cui il fruitore deve fare la sua parte per incontrare il poeta, il quale semina tracce emotive da seguire, attraverso la scelta di parole, pause, suoni, dinamiche, affinché si abbia una profonda e completa compenetrazione emozionale della poetica stessa. Il tentativo compositivo, che si snoda attraverso l’indagine dell’equilibrio di tutti questi elementi, è di natura pittorica oserei dire. Un quadro tridimensionale in cui il gesto alle volte è solo accennato: un suono, un percorso armonico, una parola che va a recuperare qualcosa dal suo secondo o terzo significato, e che immersa in una determinata frase sia capace di suggerire nuovi accostamenti sintattici o nuovi neologismi. Tutti segni semantici portatori di un’emotività calcolata atta a seminare le tracce da seguire.
“Escape to the Roof” è sicuramente un album di cui avete studiato tutti i dettagli. Per quanto avete lavorato a questo progetto?
La produzione è stata particolarmente tormentata a dire il vero, proprio perché volevamo che suonasse in un certo modo ma quel modo di far suonare i dischi, con tutto quello che comporta in fatto di attrezzatura tecnica che serve, sta letteralmente scomparendo a causa degli altissimi costi di gestione e manutenzione diventati insostenibili dopo il crollo del mercato discografico e l’avvento dello streaming. Abbiamo fatto girare il disco nelle botteghe di mezza Europa prima di trovare quella giusta affinché suonasse come lo avevamo in testa. Probabilmente negli USA avremmo trovato più facilmente ciò che cercavamo, ma Escape to the Roof è un progetto di autoproduzione e le botteghe a stelle e strisce sono leggermente fuori dalla nostra portata al momento. Alla fine, comunque, possiamo dirci soddisfatti del risultato, e anzi siamo molto contenti di avere trovato una bottega nostrana in cui hanno saputo aggiungere quella sfumatura fresca e curatissima che ha dato un quid in più al risultato finale, cosa che non ci aspettavamo e che, a dire il vero, non stavamo neanche cercando. Il disco è stato registrato a tratti in diversi posti, anche in stanze abbastanza lontane dalle caratteristiche tecniche tipiche degli studi di registrazione, alle volte con allestimenti tecnici di fortuna, da tecnici audio diversi, ma sempre sotto la supervisione della band, mia in primis che, purtroppo o per fortuna, ne sono il produttore. A tutti è stata chiesta una certa riservatezza per non rilasciare riferimenti geografici specifici. Tutti hanno risposto con grande sorpresa con la chiara volontà di entrare nel gioco dell’anonimato. Quindi: il disco è stato mixato da Sdicky Morales presso Northman Studios, La Habana, Cuba; masterizzato da Bob Carson presso gli SOS Mastering Studios, La Higuera, Colombia. In fine consentimi una menzione speciale anche per musicisti ospiti: Vince Stugots che ha suonato gli assoli di chitarra in “Fried Blues Chicken”, “Nine Rows of Beans”, “Still the Same Crap that Now Like”, “So Far So Good” e “News From Hell”; Erie Jentil Suzarte è il mezzosoprano e Marcela Gutièrrez il violino che sentite in Remember Me. Sul fronte della grafica e dei videoclip non possiamo dimenticare quei visionari geniacci di Saganas.
Qual è la traccia a cui sei più legato?
Le canzoni che scrivi sono come figli. Non si possono fare disparità, e semmai fosse, non si dice. Sono tutti pezzi di cuore. Nel nostro caso disperato anche fegato, polmoni, milza, colon, pancreas… tutti quelli di vitale importanza.
Quali sono i vostri progetti futuri?
Obiettivi tantissimi, uno su tutti restare umili (ma non c’è il pericolo del contrario) e soprattutto fedeli a noi stessi. Liberi di pensare o dire tutto quello che ci passa per la testa: questa cosa di dover dare sempre sfoggio di estrema simpatia, essere divertentissimi e accattivanti a tutti costi, e in ogni situazione contingente, a me non va particolarmente a genio, a parte essere una delle cose più noiose del mondo. Reclamo ufficialmente il diritto sacrosanto e atavico di essere o risultare antipatico, se necessario, quanto basta, come il sale; o di dire quello c’è da dire senza dover fare la gimcana evitando l’infrazione del politically correct o i dogmi dei manifesti costituenti di questi nuovi militanti incalliti e fanatici della super tolleranza partitocratica istituzionalizzata. Abbiamo perso il diritto di dire stronzo a chi è stronzo, ladro a chi è ladro, bugiardo a chi è bugiardo, certo con garbo, senza buttarla in caciara, ma con determinata fermezza e onestà intellettuale.
Prossime tappe, quelle fondamentali di chi si occupa direttamente della promozione dell’album: seguirne l’andamento e sviluppare strada facendo le strategie migliori per la più larga diffusione. Speriamo di riuscire presto a portare in giro lo spettacolo dal vivo, che è la versione 2.0 del disco, uno spettacolo a metà tra sperimentazione teatrale e concerto rock, in cui le canzoni sono rimasticate e risputate in scena in maniera diversa, incastonate in un’ambientazione drammaturgica del tutto insolita.