Al terzo disco Lorenzo Lambiase attua una serie di stravolgimenti. Sintetizza il suo nome, sceglie la via dell’ironia senza risparmiare neanche se stesso e opta per un titolo tutt’altro che cauto. Con “Radical Shit!” sono finiti i tempi della diplomazia. Lambiase ci fa entrare in una Roma reale, fisica, quasi geografica e che adotta lo stesso procedimento nel sondare la complessità dei sentimenti umani e lo stato di salute dell’attuale panorama musicale italiano.
In “Radical Shit!” tutto avviene in uno scenario molto caratterizzato. Roma non fa semplicemente da sfondo. Ci sono anche riferimenti geografici, un po’ come se ascoltando ci si muovesse fisicamente nella città. Qual è il suo ruolo?
Roma non è solo una cornice è l’area in cui tutto nasce. Se facciamo un discorso globale e intendiamo il pop come un codice universale mondiale in cui tutti si riconoscono, in questo senso una canzone di Tiziano Ferro o di una qualsiasi altra popstar internazionale non assumerà mai un significato personalizzato. È un po’ come la Coca Cola o il McDonald’s. Da ogni parte del mondo sentirai lo stesso gusto. Questo è il danno più grosso che ha fatto alla cultura il concetto di pop generalizzato come codice in cui tutti si devono riconoscere per forza.
Io sono nato e cresciuto in un piccolo quartiere di Roma, la mia formazione culturale viene da qui e quindi non sarà mai solo una cornice per un cantautore che non fa il pop di cui ti parlavo. Roma è la grande madre di un progetto che vuole essere vero e non pop.
A proposito di Roma e le sue storie. Che musica c’è a Roma?
Una scena romana esiste nella misura in cui, ripeto, non si fa pop globale. Addirittura io sono convinto che chi è vissuto in quartieri diversi può avere qualcosa di diverso da raccontare. La scuola romana c’era, come c’erano quella genovese e quella milanese perché l’Italia è un paese culturalmente molto differenziato. Ora però si sta virando verso un esercito di cloni che vogliono assomigliare sempre più l’uno all’altro. Per quanto riguarda la Roma attuale Motta non è romano ma ha portato originalità. La sua scrittura lo differenzia è genuina e questo io lo apprezzo moltissimo. Un altro esempio di genuinità è Cesare Basile, catanese, che per quanto faccia un blues sofferente e abbia come produttore John Parish, anche produttore di PJ Harvey, nella sua musica resta la Sicilia. Band come Thegiornalisti possono essere localizzate in diversi luoghi ma non sentirai mai identità così personalizzate. Aderiscono a quel codice. Un altro artista che mi piace molto è Truppi. Lui è molto sincero. Questo per me significa identificarsi.
Giovanni Truppi è provocatorio ma molto sottile. Lo sei, in un certo modo, anche tu in quel verso “mi dici di andare in India ma a me Calcutta fa cagare” ma ci tieni a precisare che è solo ironia. Preferisci restare cauto?
La gente evita di pestarsi i piedi. Io al terzo disco mi sono reso conto che non voglio essere diplomatico e non lo sarò mai. So che è facile criticare gli hype ma io li considero sopravvalutati. A tutti questi giovani cantautori è stato dato uno stemma. Gli italiani cercano spesso il personaggio. Anche nei format tv vincono la suora che canta il rock, le persone con disagi sociali. Danno la possibilità di fare comunicazione ma questo non ha niente a che vedere con un pensiero o una corrente culturale. Non ho paura di esprimere una critica, ma cerco di sferrare i miei colpi nella maniera più raffinata possibile, in una forma intelligente. È lì la differenza fra essere beceri e sottili. Inoltre di Calcutta conosco la storia e credo anche che il singolo “Che cosa mi manchi a fare” sia molto valido. Il problema è tutto il contorno che mi fa un po’ impressione.
C’è da dire che alcuni artisti sono particolarmente bersagliati. Del Primo Maggio sono state sottolineate le stonature. Non è un po’ poco?
Stonare non è un problema, trovami una canzone intonata dei Pogues o dei Clash. Non significa niente. Però da musicista ti posso dire che è calato il livello strutturale. C’è una tendenza al lo-fi, voler fare brutto perché brutto è nuovo e lo puoi sentire dal cellulare. L’inadeguatezza dei supporti comporta un risparmio anche sulle registrazioni. Persino dal vivo alcune band tralasciano la qualità del suono tanto la gente è lì sotto a ballare lo stesso. Le avvisaglie di un declino pauroso ci sono, anche compositivo. Come dicevo c’è chi scrive bene perché, pur giovane, ha un approccio più tradizionale come nel caso di Motta che infatti suona da parecchi anni.
Riguardo la scrittura dei testi, ben costruiti, qual è la tua ispirazione?
Scrivere è un istinto. Sto scrivendo anche un romanzo ma non conosco le tecniche di scrittura e non mi interessano. I testi raccontano di me e di quello che osservo.
Alcuni brani trattano aspetti particolari dell’amore e le varie forme in cui se ne può fare esperienza. Però non è mai romantico.
Sì, io evito di scrivere canzoni d’amore perché l’hanno fatto meglio di me tantissimi altri. Anche dell’amore tutti vogliono fare un McDonald’s, ma in realtà è la cosa più articolata che ci possa essere tra tutti gli aspetti della mente umana proprio perché non viene esclusivamente da essa ma è un connubio di sensazioni, di concetti esperienziali e una dose di razionalità. Per questo evito gli aspetti più romantici e vado a prenderne i lati più torbidi.
C’è una forma d’amore anche nei pezzi più insospettabili. Parlo del rispetto per la musica che rivendichi in “L’ascoltautore” in cui ne condanni l’uso e consumo immediato che se ne fa. Chi c’è dietro il personaggio del barone?
Il barone ha nome e cognome in realtà. Questa gente è la rovina di ciò che facciamo noi. Abusano del concetto di cultura per guadagnarci due soldi. Schivo il più possibile trappole del genere in cui sono caduto in passato. È vergognoso. Disprezzano gli artisti e hanno la presunzione di avere in mano l’organizzazione di eventi di cultura.
Anche “Radical Shit!” l’ultimo brano, non le manda a dire. Stavolta fai anche autocritica. Il “vaffanculo” finale, poi, di chi è?
Io mi presento sempre un po’ peggio di quello che sono. Sono antipatico, modaiolo, ho un concetto estetico sviluppato e quindi aderisco a quelle tendenze radical chic. Però dentro non lo sono per niente. Prendo in giro i miei difetti in quel pezzo ma poi per me conta molto l’anima. Il “vaffanculo” è di Grillo. Il disco però non è affatto politicizzato. Quella coda è la migliore selezione delle peggiori mediocrità italiane. Sono tutti aspetti che si mescolano alle nostre vite così come si mischiano in quei 20 secondi. Se ne parla al bar dove tutti sono grandi esperti ma una volta fuori ci si dimentica di tutto perché la TV ha dato un’altra notizia. Questo concetto è terrificante.
Per questo il disco si conclude come con uno schianto che volevamo sporcare con chitarre ancora più distorte, comprimere tutte le batterie, una roba garage dal suono più sporco possibile.
Alessandra Virginia Rossi